di Gianfranco Murtas
E’ un bel volume di ben 445 pagine quello che il Comitato di Cagliari dell’Istituto per la Storia del Risorgimento ha promosso per onorare la memoria del suo perduto presidente Tito Orrù, ed uscito ora che sono trascorsi da poco i due anni dalla scomparsa improvvisa e dolorosa del professore.
La curatela del libro collettaneo, una polifonia a 42 voci – meglio anime e voci –, pubblicato per i tipi di Arkadia editore con il contributo finanziario della Fondazione Banco di Sardegna, della Deputazione di Storia Patria per la Sardegna, dello stesso Comitato cagliaritano dell’Istituto per la Storia del Risorgimento ed il patrocinio della Università degli Studi di Cagliati – era stata affidata, con obbligata (dato il merito e il diritto di colleganza preferenziale) e felice scelta, alla professoressa Maria Corona Corrias, che ne presenta i ricchi contenuti in una scheda di premessa, rapida sì ma intensa per l’imprinting morale che ha sostenuto l’intera impresa: «In questi mesi di preparazione del volume, nel coordinare le numerose adesioni pervenute, nei contatti con gli autori, negli inevitabili solleciti, nella scelta della copertina, nel fare, a più riprese, il punto della situazione con Marinella Ferrai Cocco Ortu, attuale presidente del Comitato, Tito era sempre presente, anzi, direi incombente, per la necessità di rispettare i termini temporali della nostra iniziativa: la pubblicazione del volume per il secondo anniversario dalla sua scomparsa. Ora, al momento della consegna dei contributi all’Editore, sono pervasa da un sentimento di malinconia e di abbandono come se si chiudesse un rapporto per me ancora vitale».
Questo il sentimento personale della curatrice, capace poi subito, però, di cedere generosamente ad una «riflessione più pacata»: «il nostro amico riceverà una nuova e solida persistenza, che si manifesterà, oltre che nel ricordo e negli affetti che emergono dirompenti da questi scritti, proprio dalla stessa esistenza concreta dei medesimi. Questo è l’aspetto sublime del nostro lavoro destinato a durare nel tempo come tutti i frutti dello spirito e dell’intelletto umano». Per concludere con la previsione, direi con la profezia propria della storica militante: «tra molti decenni, anche chi non avrà avuto il piacere di conoscere personalmente il nostro studioso, resterà colpito dalla molteplicità dei suoi interessi, dal numero dei suoi amici, dalle doti umane di apertura e simpatia che scaturiscono da queste pagine». Lei stessa, Maria Corona Corrias, aveva tempestivamente già dato del suo, in un mirabile “Ricordo di Tito Orrù”, uscito nel fascicolo III dell’annata 2012 di Rassegna Storica del Risorgimento, il periodico trimestrale del celebrato Istituto per la Storia del Risorgimento passato, nel tempo e dopo il lungo commissariamento di Gaetano De Sanctis, per le presidenze assolutamente prestigiose di Alberto Maria Ghisalberti, Emilia Morelli e Giuseppe Talamo (e oggi di Romano Ugolini).
Un volume, quello appena uscito e presentato al Search di Cagliari lo scorso 28 marzo, da intendersi come sequela e compimento di un’avventura iniziata molti anni fa, com’è peraltro nel titolo scabro – Numero speciale in memoria – che si è voluto a commento della copertina riproducente, in una ampia finestra, la grafica opzionata dallo stesso professor Orrù per la sua creatura. Una grafica intenzionalmente allusiva, per offrire, a partire dal 1984, e con cadenza immaginata quadrimestrale (poi semestrale), un’originale ripresa e continuazione di quel Nuovo Bollettino Bibliografico Sardo e Archivio Tradizioni Popolari che l’indimenticato Giuseppe Della Maria aveva lanciato, con povertà assoluta di mezzi, come bimestrale nel lontano 1955. E nel quale, andrebbe soggiunto, non erano mancati i contributi dello stesso (allora giovane) professor Orrù, concentrati nei numeri usciti fra il 1967 e il 1975.
C’era già in quella testata e nella grafica di accompagno la storia di una missione culturale di cui la rassegna bibliografica orruiana costituiva come un asse di riordino metodologico, lo strumento efficace di una pista, qualsiasi pista, di ricerca: così era stato fin dal 1901 per l’intuizione e il genio del giovanissimo (23enne!) Raffa Garzia, che aveva esitato il suo Bullettino Bibliografico Sardo con notizie bibliografiche di letteratura italiana contemporanea, attraversando con esso quasi tre lustri per l’intero, i primi del nuovo secolo, fino alle soglie della grande guerra e comunque, in larga parte, in parallelo alla direzione de L’Unione Sarda affidatagli da una proprietà ancora cocchiana. Erano state allora ben sessanta le uscite del periodico, ed erano state tutte un capolavoro di dotto fiancheggiamento di autori sardi che davano o continuavano a dare il meglio della loro arte, taluno anche alla scena nazionale come la Deledda e Salvatore Farina, altri alla sperimentata ribalta regionale come Enrico Costa archivista-romanziere, ed i poeti Antonio Scano cagliaritano e Sebastiano Satta nuorese e Salvator Ruju sassarese… Il direttore-fondatore associava, con quella pubblicazione, la sua città alle capitali culturali che aveva/avrebbe frequentato, prima da studente poi da docente, come Firenze e Bologna…
Negli anni del regime e in quelli più precisamente ricordati come “del consenso”, fra il 1933 ed il 1937, era stata poi la volta del Bollettino Bibliografico della Sardegna, affidato alla direzione di Remo Branca in quel di Iglesias. Un bimestrale, non avaro di supplementi e di vario formato, che portava La lampada come maggior testata e coinvolgeva nelle ordinarie collaborazioni il meglio della cultura letteraria e storica (non soltanto accademica e in larga prevalenza cattolica) dell’Isola negli anni della dittatura: da Pietro Casu ad Agostino Cerioni, da Battista Falchi a Fernanda Gemina, da Edoardo Fenu a Mercede Mundula, da Agostino Saba a Nicola Valle….
Aveva riproposto, il nostro professore, con lieve necessaria modifica, la stessa testata – Bollettino bibliografico della Sardegna – e affermato un utile riferimento a quel Comitato di Cagliari dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano del quale il Bollettino si offriva ad essere, come aggiunta alle altre vocazioni e già dal n. 4, “quaderno” o voce scritta. (Allora, può ricordarsi, l’amministrazione del periodico prendeva a distinguersi dalla direzione, collocandosi appunto presso il Comitato locale dell’Istituto, nel viale Fra Ignazio – nella facoltà di Scienze Politiche –, rimanendo invece la direzione presso l’abitazione del professore nel quartiere di San Benedetto. Più tardi direzione e redazione si trasferiranno al civico 56 della via Cavour, e dopo ancora al civico 69 della via Dante in Quartu Sant’Elena).
Si potrebbe aggiungere, per sovrappiù di contestualizzazione, che nel dicembre dello stesso 1984 si rinnovavano gli organi direttivi del Comitato cagliaritano dell’Istituto, con la conferma di Tito Orrù alla presidenza, affiancato da Francesco Manconi, Maria Corona Corrias, Giuseppe Serri, Maria Luisa Plaisant, Giuseppina Cossu Pinna, Liliana Saiu, Marinella Ferrai Cocco Ortu, Gabriella Olla Repetto e Virgilio Porceddu. Una compagine di altissima autorevolezza cui si sarebbe dovuta la candidatura (e la gravosa-gradita scelta) di Cagliari quale sede del congresso nazionale del 1986 all’insegna delle capitali preunitarie, con il magnifico intervento-prolusione di Giovanni Spadolini.
Dal primo numero della nuova serie datata 1988 (si tratta del fascicolo n. 9) ilBollettino aveva aggiunto, quasi come sub testata o comunque integrazione della maggiore, il rimando a quella Rassegna Archivistica e di Studi Storici destinata a farsi paniere «di inventari e di descrizioni relativi a fondi appartenenti a Enti finanziari e a Società e Aziende economiche e di servizi, che hanno operato e che operano nell’isola». Evidenza anche questa dei programmi di lavoro sempre più articolati che pressavano nella mente del professore-direttore.
Né potrebbe tacersi una ulteriore modifica della testata, in capo alla copertina, nel corso del tempo: perché a partire dal n. 27-II (e però anticipato nel frontespizio della impaginazione del numero precedente, il 27-I) si aggiunge all’ormai canonica dizione Bollettino Bibliografico e Rassegna Archivistica e di Studi Storici della Sardegnaun supplemento, o espansione di titolarità morale, coinvolgente ora anche leComunità Sarde fuori dell’Isola. Segno manifesto della fecondità delle nuove relazioni allacciate dal professore con i circoli dell’emigrazione sarda sul continente italiano e fuori dai confini nazionali. E infatti la Consulta dell’emigrazione, presso l’Assessorato regionale al lavoro, formazione professionale, cooperazione sicurezza sociale, comincerà ad apparire, nei primi numeri del Duemila, come “associato sostenitore”. E nella lunga composita gerenza non mancheranno di evidenziarsi le “corrispondenze e collaborazioni redazionali” in capo anche al Circolo culturale “Su Nuraghe” di Biella, al Circolo Sardo “Grazia Deledda” di Mar del Plata, in aggiunta al Sardinien’s Museum di Sydney, all’Assfort Sardegna di Cagliari, all’Associazione Studentesca “Uomo Politico” dell’Università di Cagliari. Evoluzioni che possono ben interpretarsi come manifestazioni di un corpo vivo, vivissimo, e dunque espressioni di una vitalità in permanente rilancio.
Va detto che il Bollettino, che ha toccato – dati anche i doppi numeri distinti con l’ordinale – le trenta uscite, era nato con molte ambizioni, taluna forse mancata nei risultati, e con una autorevolezza che il suo direttore, ma anche l’intero staff redazionale con lui (e del quale piace ricordare almeno il compianto Virgilio Porceddu, insieme con Giuseppina Cossu Pinna e Rita Gatto), assicurava alla platea degli studiosi chiamati a collaborare, degli enti chiamati a finanziare la stampa, dei lettori quidam chiamati a contribuire con gli abbonamenti.
I programmi editoriali e le note redazionali a firma di Tito Orrù meriterebbero una rilettura attenta, per il più che potrebbero rivelare di lui e delle sue aspettative invero avvertite piuttosto come impegno e dovere, come aree d’intervento nuovo da coprire per rispondere ad esigenze attuali e future. Fra le molte altre richiamerei quella di un «piano organizzativo per una “Bibliografia Generale della Sardegna”, da realizzare con metodi moderni e di validità universale e col presupposto… della revisione e integrazione della Bibliografia sarda del Ciasca, risalente al 1930-1934». Sul punto, già nel primo fascicolo, il professore tracciava alcune documentatissime note riflessive e riepilogative insieme delle competenze già collaudate e delle necessità e urgenze delineate negli ultimi decenni da autori e autorevoli studiosi (come il Marica, il Bonu, il Sotgiu, il Contini, lo stesso Della Maria) e da responsabili di dipartimenti archivistici pubblici (come il Todde, la Olla Repetto, ecc.).
Il Bollettino vedeva la luce – bisogna rammentarlo – giusto all’indomani della scomparsa di Giannino Todde, il soprintendente archivistico per la Sardegna, e si caricava per questo verso come di un aggiuntivo obbligo di supplenza che era pure obbligo di rigore e insieme di offerta divulgativa del sapere storico, e anche questo era nel permanente sentimento del professore, nel suo apostolato che portava l’accademia al servizio della società.
Esso seguiva di qualche mese anche un altro evento di speciale rilievo nella vita culturale del capoluogo e, direi, nella vita di studi di Tito Orrù: vale a dire la giornata di studi celebratasi il 5 marzo 1983 nel palazzo civico, all’insegna di “Giovanni Siotto Pintor e i suoi tempi”, promossa dal Comitato cagliaritano dell’Istituto risorgimentista (la pubblicazione degli Atti sarebbe venuta nel 1985). Era stato allora il professore a tenere la relazione di base (“Cenni sulla vita, le opere e l’attività politica di Giovanni Siotto Pintor”). Fra i molti intervenuti, con contributi originali ed importanti, insieme con il pro rettore Giancarlo Sorgia e il sindaco Di Martino, i professori Manlio Brigaglia, Raimondo Turtas, Maria Luisa Plaisant, Lorenzo Del Piano, Giampaolo Pisu, Giovanni Todde, Carlino Sole, Maria Corona Corrias, Girolamo Sotgiu, riservandosi spazi anche a Umberto Cardia e Giovanni Siotto Pintor jr., e le conclusioni a don Paolo De Magistris.
Non sarebbe da tacere, benché sia cosa nota, che la tesi di laurea di Tito Orrù era stata proprio sulla figura del giobertiano, del cattolico liberale, dell’antitemporalista, dello scomunicato di fede ardente, sicché si era trattato, per il professore, di un ritorno agli studi giovanili, a quelli che avevano coperto per molti anni, pur senza farsi esclusivi s’intende, e prima delle glorie della ricerca e dello studio critico del Diario asproniano, i suoi interessi.
Articolato in numerose sezioni, via via moltiplicatesi nel tempo, il Bollettino rivelava da subito il suo pregio nella piena circolarità ideale delle materie trattate e nel riconoscibile assortimento ideologico degli studiosi autori dei contributi. Cominciando dallo stesso direttore che fin dal primo numero dedicava, lui uomo della sinistra autonomista, a un cattolico/democristiano come Salvatore Mannironi il suo maggior articolo-saggio.
Soltanto come curiosa conferma della ecletticità di lettura critica propria dello stesso direttore del Bollettino richiamerei anche, stavolta nel già citato n. 9 del 1988, un articolo dal titolo “Pinocchio di Carlo Lorenzini (chi est connottu Collodi) traduxiu in sardu”, a firma di “Tito Orrù de Orroli”. Il rimando è, attento al chiaroscuro ed amichevole insieme, alla riscrittura da parte di Matteo (Matteu) Porru con presentazione nientemeno che di Giovanni Lilliu de Barumini.
Concludendo questa forse troppo lunga introduzione, mi pare doveroso accennare ad una delle ultime uscite del Bollettino, come allegato al secondo dei due quaderni recanti il n. 28/2007, edizioni 2008. Mi riferisco agli atti del convegno “Giuseppe Garibaldi e il mare – 1807-2007 Bicentenario della nascita”, svoltosi a Cagliari il 4 luglio 2007, ed al resoconto del LXIII congresso dell’Istituto per la Storia del Risorgimento (celebratosi a Cagliari ed Iglesias fra l’11 e il 15 ottobre 2006) all’insegna di “Giuseppe Garibaldi: Cultura e Ideali”, nonché di altre manifestazioni collaterali. Un delizioso fascicolo recante un’ampia sezione fotografica curata da Paolo Bullita il quale, andrebbe segnalato, negli ultimi dieci anni circa aveva composto con il professor Orrù un perfetto sodalizio collaborativo non soltanto volto alle complesse bicentenarie onoranze garibaldine ma anche ad altri campi di ricerca, non ultimo quelle delle società mutualistiche ed operaie. Al professore la lezione – a braccio sempre, pirotecnica ed entusiasmante, capace di intrecciare i mille nessi fra la grande storia e quella minore locale –, a Paolo le slide e il commento alle immagini, secondo un metodo da lui ottimamente messo a punto ed offerto con generosità ai pubblici i più diversi.
Sarebbe cosa santa se qualche studioso di particolare competenza – magari la stessa Francesca Pau che ha pazientemente e valorosamente compilato il “Profilo bibliografico” del professore in capo al volume d’onore (“Come fiori nella polvere: storie di piccoli-grandi uomini attraverso gli studi di Tito Orrù”) – potesse applicarsi a una ricatalogazione dei circa 600 contributi usciti nella serie del Bollettino, meglio definendone anche i passaggi evolutivi, materiali e soprattutto d’ispirazione.
Un Numero Speciale. Il volume presentato al Search municipale lo scorso 28 marzo si articola in due grandi sezioni, la prima essendo quella dei “Ricordi personali”, comprensiva di 19 testimonianze. Nell’ordine alfabetico, di Diego Carru, Arturo Colombo, Paqujto Farina, Mario Ferrai, Jean Yves Frétigné, Annita Garibaldi, Anna Maria Lazzarino Del Grosso, Gabriella Olla Repetto, Eugenio Orrù, Marco Parodi, Gesuino Piga, Raffaello Puddu, Achille Ragazzoni, Battista Saiu e Gianni Cilloco, Gianluca Scroccu, Giuseppe Sitzia, Antonello Tedde e Marcello Tuveri.
La seconda, invece, riunente “Saggi ed articoli”, include 20 contributi, Nell’ordine: di Paolo Amat di San Filippo, Francesco Atzeni, Tonino Cabizzosu, Ugo Carcassi e Tiziana Pusceddu, Martino Contu, Maria Corona Corrias, Luisa D’Arienzo, Maria Dolores Dessì, Marinella Ferrai Cocco Ortu, Nicola Gabriele, Roberto Ibba, Giuseppe Monsagrati, Gianfranco Murtas, Gian Giacomo Ortu, Carlo Pillai, Carla Piras, Giuseppe Puggioni, Sandro Rogari, Daniele Serra, Giuseppe Zichi.
Le riflessioni di Antonio Zanfarino. Magistrali – come giustamente le definisce la Corona Corrias – sono le conclusioni di Antonio Zanfarino, illustre professore emerito al Cesare Alfieri di Firenze, collaboratore prezioso della Nuova Antologia, ma sardo nostro, cagliaritano e sassarese insieme, il quale partecipa con un breve ma importante articolo su “Federalismo e riformismo”.
Mi pare giusto, e bello, richiamare alcune righe dello scritto del professor Zanfarino, perché esse paiono fotografare insieme intelligenza e sensibilità, direi sapienza della mente e sapienza del cuore, di Tito Orrù. Eccole: «La riluttanza di Tito alle sintesi idealistiche, alle spiegazioni concettualistiche, alle astrazioni storicistiche si è tuttavia unita a una profonda sensibilità morale che, senza ostentazioni moralistiche, ha animato la sua spiritualità e la sua riflessione nelle riservatezze e nelle effusioni di un’anima buona, generosa, aperta a ciò che umanizza i pensieri, i comportamenti, le realizzazioni semplici o grandi dell’uomo.
«Egli cercava la veridicità storica nella ricostruzione filologica, ma vedeva l’incompiutezza delle situazioni, delle circostanze, delle determinazioni pratiche, delle descrizioni fattuali, bisognose perciò di essere comprese con trascendimenti dei dati puramente empirici.
«La dimensione interiore rimaneva per lui insopprimibile criterio formativo e valutativo anche della realtà esteriore, ed egli vedeva nella sardità una predisposizione a intendere il rapporto esistenziale come presupposto qualitativo di ogni relazionismo fenomenico. Il suo sapere storico, analiticamente puntiglioso, era connesso alla ricerca della moralità individuale, di quella pubblica, di quella diffusa nelle esperienze comuni; forme etiche distinte, ma da vivere nelle loro combinazioni, nei loro mutui apprendimenti, nelle loro reciproche esigibilità.
«La sua metodologia storiografica si ispirava a un pragmatismo progressista, come quello di Carlo Cattaneo, che richiamava al dovere di stare ai fatti, di incontrarsi sulle cose concrete, di valersi dell’esperienza; ma aveva come riferimento permanente l’essenzialità della mediazione culturale. E se la cultura è matrice di forti convincimenti ha però il dovere […] di superare le discordie ideologiche, di non confondere lo spirito critico con lo spirito settario, di temperare le divergenze con indispensabili solidarietà.
«Le virtù personali, scientifiche e civili di Tito Orrù erano attinte non da principi fissi ma dalla sua coscienza scrupolosa, animata da un senso mazziniano del dovere, refrattaria a ogni genere di cedimenti, pigrizie, compromessi morali. Queste virtù si ispiravano, anche con intransigenza, ai criteri di una laicità intesa e vissuta come garanzia contro gli apriorismi, come condizione necessaria del conoscere, come attitudine a scoprire l’umano ovunque situato, ma avevano molto riguardo […] per l’esperienza religiosa, fermento spirituale per contrastare le false sacralizzazioni dell’autorità mondana, per rinnovare la qualità dell’esistere e del coesistere e insieme per tutelare contro il relativismo endemico, indispensabili gerarchie di valori. Egli riscontrava l’influenza religiosa, in senso liberale e democratico, nella formazione di importanti pensatori sardi, in particolare in Tuveri e in Asproni, risoluti nella lotta al dominio teocratico e al fideismo integralista, ma consapevoli di quanto l’esperienza della libertà debba anche alle sue garanzie e legittimazioni metafisiche e alla dialettica inesauribile tra una laicità aperta alla trascendenza e una religiosità rispettosa dei diritti umani negli spazi della vita privata e pubblica».
E più oltre: «Il suo federalismo era correlato ai principi di una cultura liberale espressa con indipendenza di giudizio, discernimento, discrezione, senza indulgere agli assiomi e agli automatismi di liberismi e libertarismi ostili alla necessaria disciplina della legalità costituzionale.
«Seguendo Tuveri, egli confutava il pregiudizio che per sottrarsi all’anarchia il popolo debba abbandonarsi all’arbitrio di qualcuno ed era portato a credere, come Cattaneo, che l’esercizio generalizzato delle libertà non diffonda privatezze, liceità e separatezze irrelate ma riesca ad associare le menti, le coscienze, le opere dei cittadini e diventi perciò cardine di quella autentica moralità che non consiste nella sistematizzazione di verità oggettive, ma nell’addestramento all’uso consapevole del libero arbitrio.
«Mediato dai principi della democrazia costituzionale, il riformismo progressista di Orrù vuole però che le limitazioni al potere servano a garantire i diritti dei singoli e non a conservare ed estendere i privilegi e le ingiuste prerogative di individui e di classi sociali derivanti proprio dalla mancanza o irrilevanza dei controlli e delle partecipazioni popolari alla vita pubblica.
«Il federalismo è per lui alternativa all’imposizione di unificazioni forzate, di finalità politiche stabilite dalla ragione di stato, di forme legislative estranee alle esigenze di una comunità e, se ben configurato e applicato, consente di riservare ai cittadini parti di sovranità, di libertà, di azione più grandi di quelle che essi abbandonano».
Infine. «Il problema delle autonomie civilizzate, e di quella sarda alla quale particolarmente si rivolgono i Suoi interessi, è di come spezzare i determinismi, lottare contro le caste e le consorterie, evitare le tirannie dei poteri locali, di come dilatare gli spazi della cooperazione sociale, di come disporre le comunità regionali a profittare non solo di ciò che esse possono produrre con i propri mezzi, ma di tutti i progressi che si compiono a livello nazionale europeo, mondiale.
«Gli ideali autonomistici di Orrù convergono con quelli risorgimentali negli impegni solidali richiesti dal riformismo democratico. Il suo federalismo è esso stesso permeato di spirito unitario, richiede, come voleva Cattaneo, una dichiarazione esplicita e solenne del valore della vita nazionale, riconosce il ruolo delle nazioni nella divisione del lavoro storico e sociale. Ma il federalismo protegge dal nazionalismo, dallo statalismo, dai miti rivoluzionari, dalle logiche dell’inimicizia connesse agli espansionismi dei poteri egemonici e rappresenta un importante fattore di pacificazione in un mondo comune di legalità e di democrazia.
«Tali valori si combinano con le immagini che Tito ha della sardità come coalizione di idee e di opere rivolte a conciliare i retaggi positivi della tradizione con il rinnovamento delle istituzioni, delle garanzie costituzionali, delle tutele sociali.
«La cultura del federalismo non è comunque solo scomposizione, differenziazione, separazione. Lotta contro aggregazioni feudali subdolamente conservate o malamente superate, ma crea vincoli associativi tra realtà indebitamente scisse e incomunicanti […].
«L’autonomia vale se crea un ambiente adatto all’esercizio delle libertà private e pubbliche, se non abusa di indignazioni moralistiche e ideologiche contro la creatività spontanea, se non pretende di estirpare la miseria con un’economia di comando.
«Federalismo, democrazia politica, riformismo sociale, libertà economica hanno motivazioni comuni e devono fruire di un medesimo sistema di protezioni pubbliche. La libertà crea concorrenza, e questa riduce l’avarizia, i privilegi, le rendite di posizione, le asprezze della lotta di classe, le discriminazioni.
«Con espressi o inespressi riferimenti al pensiero di Piero Gobetti, egli guarda con favore, ma senza estremismi libertari, a certi aspetti di una rivoluzione liberale anticonservatrice e antistatalistica, assecondata proprio dalla diffusione di principi federali che non denigrano gli interessi privati, non deprimono il lavoro produttivo e contribuiscono invece a denunciare i parassitismi che si annidano a tutti i livelli e in tutti i ceti sociali.
«Tito Orrù non ha teorizzato sistematicamente le sue scelte teoriche, perché l’analisi metodica gli appariva quella in cui meglio poteva dispiegarsi il suo apporto scientifico. Si è però prodigato per scoprire nell’ordinato disordine della libertà ciò che garantisce e valorizza la dignità delle persone, la civiltà delle idee, l’emancipazione delle comunità».
Le testimonianze degli amici. Colpisce soprattutto, nelle testimonianze che aprono il libro, brevi ma che pur si diffondono lungo un centinaio di pagine, il racconto di amicizie pulite e spontanee, di relazioni aperte dal carattere leale e disponibile del professore così fin dalla sua giovinezza, com’è nelle confidenze di amici come Lello Puddu – che di Asproni scriveva e riscriveva sessant’anni fa – e Marcello Tuveri con cui, forse più di tutti, l’intesa aveva stretto ragioni di colleganza di studi liceali e universitari ad altre d’indole ideale, nell’amore a quel filone patriottico che univa la Sardegna all’Italia, le speranze dell’autonomia regionale alle fatiche del risorgimento nazionale unitario: insomma, già allora, nella sensibilità e nella riflessione di Tito Orrù adolescente o poco più che adolescente, era come in nuce la religione asproniana che poi avrebbe dato mille contenuti e orientamenti precisi alla sua vita di studioso. Si riaffacciano così, nelle loro pagine, i nomi della democrazia sarda e di quella italiana, negli incroci fra ieri e oggi, fra Galante Garrone e Bobbio, Balzani o Parmentola e il Solari, dunque il filosofo di Collinas e il leader dell’opposizione parlamentare a Cavour e alla destra, e il Martini e il Carta Raspi, gli uomini del Convegno e finalmente la “signorina”, la professoressa Arcari. E forse ripensando alla docenza e all’autorità della preside chiude le sue righe Marcello Tuveri: «In una Facoltà che per diversi decenni era stata dominata da un’ispirazione modertata Tito Orrù svolgeva un compito di collegamento tra diverse istanze. Non era mai stato partigiano in forma ostile verso gli altri. Era garbato, gentile, pronto a dare ad altri quanto sapeva. Non era uomo di rottura e di insanabili dissensi. Al contrario favoriva l’incontro che rende fecondo il confronto nell’interesse della verità che è la primavera ragione della storia».
Con quelle di Puddu e Tuveri si raccorda la testimonianza di Gesuino Piga, che ricompone i quadri di vita comune a partire anch’essa dalla fine degli anni ’40, dagli esordi universitari cioè l’uno a Giurisprudenza l’altro – Orrù, “maiolu” orrolese – a Scienze Politiche, al tempo corso di studi interno alla facoltà di Giurisprudenza. Ritornano i modi di fare amicizia dei giovani in quel secondo dopoguerra, ritornano gli amori agli indirizzi civili e politici – il glorioso Partito Sardo d’Azione dei tempi di Giovanni Battista Melis e di quant’altri! dopo l’abbandono di Lussu –, ritornano gli esordi professionali – nella carriera amministrativa direttiva della stessa università e nell’assistentato alla cattedra rispettivamente –, ritornano gli incontri saltuari a Cagliari quando le circostanze allontanano, e soprattutto ritorna la solidarietà operosa a favore dei circoli dei sardi in continente (a partire da quello apripista di Pavia) dagli anni ’80, ritornano gli ardori religiosi per la memoria, che è anche lezione, asproniana, il desiderio di arrivare ad una Fondazione…
C’è, nelle pagine di Gabriella Olla Repetto, anche qui, un rimando a tempi lontani, ai primi anni ’50, all’occasione di un viaggio organizzato per gli studenti del quarto anno del corso di studi 1951-1955 di Giurisprudenza/Scienze Politiche in Tunisia: terra di relazioni antiche con la Sardegna, basti ricordare gli investimenti delle banche sarde (poi fallite per quegli immobilizzi nelle imprese minerarie), basti ricordare il nome del Ghiani Mameli o del De Francesco con i suoi giornali in italiano ed in arabo. .. Ad un tratto, durante una traversata in pullman «la comitiva, stanca e insonnolita… venne risvegliata dal bagliore del sole che illuminava lo spettacolare anfiteatro dell’antica Thysdrus, a El Jem, simbolo della potenza della Roma imperiale in Nord Africa, terzo nel mondo dopo quelli di Roma e Capua. Simultaneamente una voce stentorea intonò “Sole che sorgi”, e a essa si unirono tutti i passeggeri. Con loro, anche Tito che, al mio sguardo interrogativo, rispose con quel suo sorriso, leggermente trattenuto, ma dolce e suasivo, che tutti conosciamo. Il motivo del mio stupore era dovuto al fatto che Tito non faceva mistero del profondo attaccamento alla Sardegna e dell’atteggiamento duramente critico nei confronti dei suoi dominatori, Roma in testa. Scoprii, così, un tratto del suo carattere, raro a trovarsi, che sintetizzò nella capacità di tributare all’avversario l’onore delle armi. Questa imparzialità, unita a una spontanea serenità e alla grande curiosità verso l’essere umano, è stata la cifra del suo essere uomo e storico».
Ogni testimone ha il suo osservatorio, le sue circostanze di vita fissate nella memoria e riversate qui all’ascolto e alla lettura di tutti, alla conoscenza di tutti, per la composizione del mosaico. Parodi, uomo di teatro, ricorda il professore come consulente nelle rielaborazioni dei momenti cruciali delle giornate antipiemontesi di “sa die de sa Sardigna”. Scroccu, Tedde e la Lazzarino del Grosso, per non dire di Annita Garibaldi, riprendono il tema garibaldino di comune interesse ed insistono anche sulla corposa bibliografia donata al mondo degli studi dal professore. Così al vasto (ma non dispersivo) campionario dei filoni di ricerca riportano le testimonianze di Giuseppe Sitzia (pronipote di quell’Antioco, il comandante del Cagliari, che legò il suo nome alla vicenda pisacaniana di Sapri), di Eugenio Orrù (sulle riviste dell’autonomia) e Achille Ragazzoni (sui congressi dei risorgimentisti). Alle relazioni con Bitti, nel culto dei lasciti democratici asproniani, riportano le pagine di Diego Carru – bellissime – e di Paqujto Farina, alle collaborazioni con il mondo dell’emigrazione rimandano invece i ricordi precisi e documentati di Battista Saiu e Gianni Cilloco. Gustoso e narrativamente efficace quanto scrive Jean Yves Frétigné, esponente dell’Associazione di studi francesi sul Risorgimento italiano che apre la sua testimonianza lodando la lealtà collaborativa del professore (definito «un vero mazziniano») e così smentendo la battuta ironica e divertente con cui apre il suo ricordo: «Per completare la creazione forgiando un uomo assolutamente perfetto, Dio creò il Professore universitario. Avendo saputo di questo progetto, il Diavolo decise di contrastare l’azione divina ideando il peggior nemico del Professore universitario: il collega».
In ultimo vorrei qui evocare l’intensa testimonianza di Arturo Colombo, anticipata al convegno bittese dello scorso 14 settembre. Perché in essa non ci sono soltanto le grandi coordinate di studio e ricerca di Tito Orrù storico della Sardegna e dei protagonisti del suo riscatto civile, ma anche sono evidenziati i caratteri del divulgatore di livello, del generoso apostolo della lezione anche nei circoli dell’emigrazione (quello pavese compreso), del collega rispettato ed amato incapace di suscitare invidie malevole, ma anche, come finale, l’amarezza – di Colombo più che di Orrù stesso – per il mancato riconoscimento al nostro professore di «quella “carriera” che sicuramente gli spettava, e che avrebbe dovuto garantirgli la cattedra universitaria».
Opportuno, giusto, doveroso forse, evocare, collegandolo alla personalità e alla dignità della personalità di Tito Orrù, quel passo tratto dai Frammenti postumi di Nietzche che aveva costituito il tema e il titolo della riunione bittese dello scorso autunno: «Fecondare il passato generando futuro, questo sia il mio presente».
La sequenza di articoli e saggi. E’ più complicato, e fallirò certamente la prova, dar conto compiuto degli articoli e dei saggi che riempiono i due terzi del libro. Studiosi di varia formazione ed esperienza, cattedratici in gran parte e anche semplici ma appassionati cultori delle discipline storiche, tanto più dell’arco temporale dei due ultimi secoli, hanno offerto il contributo delle loro ricerche recenti o remote, comunque inedite, come dono ad una memoria che resta creditrice di signorile partecipazione oltre che di soda dottrina.
Si potrebbe tentare una galoppata fra i testi aggregandoli all’ingrosso per tema, partendo dal Risorgimento ed arrivando al primo Novecento della storia sarda, perché è a quest’area temporale che la metà circa dei contributi fa riferimento. A cominciare, tanto… per cambiare, dagli approfondimenti asproniani, pozzo senza fondo, gustoso e sempre meglio illuminante: la Corona Corrias tratta della relazione del canonico ribelle con il senatore Musio: “il rapporto umano e le convergenze politiche di due illustri bittesi nel XIX secolo”. Giuseppe Monsagrati presenta “Frammenti di vita morale. Asproni e i classici”. Daniele Serra rimane in provincia, proponendo i profili biografici di Pasquale Corbu e Giuseppe Corbu Guiso protagonisti “delle vicende politiche del Nuorese nell’Ottocento”. Ugo Carcassi e Tiziana Pusceddu affacciano il sodalizio “Garibaldi e la Sardegna” com’è documentato dal Diario asproniano.
Oso indugiare appena un attimo sul saggio della professoressa Corona Corrias per segnalare, fra il molto altro evidentemente, l’approfondimento della politica ecclesiastica del regno sardo-piemontese, che costituisce il tema specifico del quarto e conclusivo paragrafo, perché qui entra anche la dibattuta questione della natura vera della scomunica: priva, nella lettura del senatore Musio, di una sostanza spirituale e invece mossa, prevalentemente nelle contingenze varie della storia ed esclusivamente nei tribolati decenni risorgimentali, da un’intenzione o da un obiettivo politico ovviamente in logica temporalista. Colpisce, da questo punto di vista, oltreché il richiamo all’aneddotica – benché si tratti qui di una parola (“aneddotica”), inadeguata e banale – come fu il caso del decano capitolare di Cagliari Agostino Deroma, un santo scomunicato dal suo arcivescovo (lo stesso della scomunica comminata al Siotto Pintor!) per la parte avuta negli adempimenti governativi preliminari alla abolizione delle decime, il recupero ispirativo e anche dottrinale di uno scritto asproniano, non datato, ma certamente anteriore al 1848 (Cosa è la scomunica). Esso fu rinvenuto dalla storica cagliaritana e pubblicato nell’appendice documentaria de Il canonico ribelle uscito nel 1984 per i tipi di Giuffrè.
Giustificate e ben condivisibili, a tal riguardo, sono le conclusioni della Corona Corrias: «indiscutibile è la totale convergenza delle tesi dei due esponenti della classe politica sarda sulle tematiche analizzate: il separatismo totale dovrebbe vigere tra la Chiesa società perfetta da un lato, e lo Stato con la società civile dall’altro, entrambi indipendenti e sovrani nei loro ambiti. Essendo il fine della prima meramente spirituale, soltanto perseguendo tale scopo deve essere comminata la scomunica, pena esclusivamente spirituale, a chi viola le norme della predetta società».
All’ambiente democratico (e repubblicano) risorgimentale e postrisorgimentale, fino al giolittismo, rimanda il saggio di Francesco Atzeni che della militanza regionale sarda fa una specie di anagrafe, segnalando però non soltanto le personalità ma anche le testate giornalistiche (tanto più quelle degli anni ’70 ed ’80 dell’Ottocento, e più di Sassari che di Cagliari), e le associazioni più o meno professionali o politiche tout court. Giustamente egli insiste sull’area, che sarà divisa dalla vicenda della Nuova Sardegna, Soro Pirino e Garavetti/Berlinguer. E poi sull’influenza cavallottiana, sui cimenti elettorali, taluno anche di buona soddisfazione dei generosi.
Ad Atzeni si deve il maggior studio sul repubblicanesimo isolano fra XIX e XX secolo e il presente contributo recupera bene gli elementi particolarmente distintivi di quella stagione in una famiglia politico-ideologica sì di minoranza ma ricca forse come nessun’altra di risorse morali, direi di iniziativa etico-civile, dato il contesto per molti versi ancora autoritario.
In questo stesso quadro si colloca anche il contributo di Gianfranco Murtas che riabilita la figura dello sfortunato Emanuele Canepa, poeta mazziniano-garibaldino, fratello ateo di vescovo (monsignor Luca, bacolo a Nuoro) e canonico (monsignor Silvio, parroco storico nella collegiata di Sant’Anna e capitolare in duomo). Fu, il Canepa, allora giovanissimo, in rapporti epistolari con Garibaldi e sempre prolifico autore di lunghissime composizioni in versi martelliani pubblicati in riviste o letti in piazza nelle ricorrenze patriottiche. Visse gli anni più fertili della sua combattiva (e insieme fragile) natura nel sostegno alla sindacatura Bacaredda, fra 1889 e 1890, riempiendo le colonne di analisi e polemiche del giornale La Giovine Sardegna.
Alla tradizione repubblicana e garibaldina guarda anche Giuseppe Zichi, rievocando alcune vicende della loggia massonica sassarese intitolata a Gio.Maria Angioy (fondata nel 1893, dopo la esperienza della Goffredo Mameli rimontante al 1867), e così fa anche – pur se con maggiori marcature del massonismo fraternale – Nicola Gabriele che offre un brillante spaccato del passaggio “Dai gremi alla fratellanza” guardando a “clubs e società operaie”. Per il tanto che mi sono occupato della materia, credo che tanto lo scritto dello Zichi quanto quello del Gabriele aprano spazi di ricerca estremamente interessanti, tanto più se non ci si perde nei tentativi delle grandi sintesi – per cui il tempo (dato lo stadio delle investigazioni su fonti tutte da trovare) sembra ancora prematuro – e si piantano invece i pali sui territori, alla ricerca delle originalità, avviando successivamente, in un’analisi comparata, uno sforzo di compendio unitario.
Di risorgimento tratta ancora Roberto Ibba, proponendo la biografia del generale Giovanni Battista Serpi”, sardarese comandante dei carabinieri durante la terza guerra d’indipendenza(dopo che per cinque anni ispettore dell’Arma in Sicilia), ripetutamente parlamentare e alla Camera subalpina e a quella italiana dopo l’unità (e in tali circostanze costante interlocutore dell’Asproni).
Ad una eminentissima personalità che ha tutti e due i piedi nel Risorgimento (idealmente perfino nella sinistra mazziniana) ma la testa nel liberalismo e nell’antifascismo novecentesco (e si potrebbe però anche dire nella democrazia zanardelliana nel passaggio di secolo), a Francesco Cocco Ortu cioè, guardano tanto Marinella Ferrai Cocco Ortu quanto Sandro Rogari (che allunga fino ad arrivare, e non con abuso, a Francesco Cocco Ortu jr, indimenticato deputato del PLI postbellico).
La Ferrai Cocco Ortu è stata, proprio con il professor Orrù, la benemerita “riscopritrice” di alcuni filoni della vicenda pubblica (e direi anche privata) del grande uomo di stato nativo di Benetutti, ma fattosi cagliaritano in gioventù e per il resto dei suoi giorni, seppure di più frequente elezione parlamentare isilese. Nel piccolo ho contribuito anch’io, che nel corso del tempo, approfondendo l’argomento, ho acquisito progressivamente elementi valutativi capaci di indurre a nuove classifiche, a riscattare la complessa personalità del Cocco Ortu da quell’icona negativa dell’ “Eccellenza gialla” delineata dal Satta. Riscattare la sua immagine di uomo politico per l’opera nazionale (legislativa e governativa) e per i diretti riverberi regionali (normativa del 1907). Il contributo della Ferrai Cocco Ortu, proprio perché orientato a dar conto delle relazioni con Asproni ha evidentemente dovuto insistere sulle coordinate politico-nazionali del parlamentare e ministro (di salda coscienza cattolica seppure di intransigente rigore laico nella fatica pubblica: si pensi alla questione del divorzio nel 1902).
Un campo di ricerca che mi pare ancora trascurato dagli storici professionali è quello del Cocco Ortu amministratore, per i ruoli di vertice avuti tanto nel Municipio di Cagliari (che perse all’indomani del crac bancario del 1887, a lui politicamente imputato, a favore del Bacaredda, col quale invece si pacificò dopo i moti del 1906) quanto nella Provincia, del cui Consiglio ebbe a lungo la presidenza. Un altro settore di ricerca su cui mi permetto di avanzare un’idea è l’accompagnamento del Cocco Ortu alle esperienze de L’Unione Sarda nel suo primo quarto di secolo, cioè fino alla vigilia della grande guerra. Accompagnamento di Cocco Ortu a L’Unione, ma potrebbe anche dirsi de L’Unione a Cocco Ortu.
All’età sabauda, cui il Cocco Ortu deve essere integralmente ricondotto (finì la sua carriera con la gloria del “no” opposto da Vittorio Emanuele III alla sua richiesta di proclamazione dello stato d’assedio per impedire la nefasta marcia su Roma), riportano per vari aspetti anche i saggi di Carlo Pillai, Giuseppe Puggioni, Luisa D’Arienzo e Carla Piras. Essi analizzano rispettivamente le relazioni politico-commerciali tra la Sardegna e il Marocco nel contesto complicato dalla guerra corsara (tra fine Settecento e primo Ottocento), la demografia isolana con un focus sulla parte meridionale alla metà del XIX secolo, gli atti rifondativi del 1763 (quello papale) e del 1764 (quello regio) della Regia Università di Cagliari (riprodotti in calce, entrambi in latino) e, in ultimo, i redditi della medesima Università lungo i secoli XVIII e XIX, fino alla cessazione dell’autonomia amministrativa, concretatasi con la abolizione dell’ufficio del Magistrato sopra gli studi e la sua sostituzione con il Ministero della Istruzione pubblica (1848) .
A carte d’archivio e dinamiche sociali di fine Ottocento, con importanti allunghi nella prima parte del secolo successivo, guarda il contributo di Martino Contu circa le correnti migratorie relative al comune di Monserrato ed anche all’assistenza spirituale approntata, a favore dei migranti, dalla archidiocesi di Cagliari. Contu è un validissimo, inesausto ricercatore, e col suo centro studi villacidrese SEA ha offerto alla storiografia contemporaneista, negli ultimi anni, preziosi apporti tanto sulle vicende dell’industria mineraria isolana (nel Settecento, nell’Ottocento e anche nel Novecento) e sul sindacato operaio della CGIL, ma anche sull’antifascismo spontaneo od organizzato nel medio Campidano e sui sardi caduti nelle Fosse Ardeatine, nonché, e direi soprattutto, sull’emigrazione isolana verso l’America latina. Ha individuato e selezionato le fonti archivistiche e situa il presente contributo sulla scia di questo filone di ricerca.
Di storia ecclesiastica – precisamente della Chiesa cagliaritana e/o sarda – paiono di indubbio interesse gli scritti donati al volume collettaneo tanto da Maria Dolores Dessì quanto da Tonino Cabizzosu riferiti l’uno a monsignor Giuseppe Domenico Porqueddu, pastore della diocesi di Iglesias negli anni della Rivoluzione francese, e l’altro a monsignor Paolo Botto arcivescovo di Cagliari negli anni del Concilio.
La figura del Porqueddu è quella di un ormai anziano prelato, freschissimo peraltro di consacrazione episcopale (ricevuta dal cardinale Cadello nel 1792), che, davanti al pericolo della invasione francese, incoraggia i suoi diocesani – fra Iglesias, Sant’Antioco ecc. – ad affrontare la situazione non mancando di fare la sua parte. Fornisce infatti un significativo e pronto soccorso economico per il mantenimento della milizia in rapida implementazione dato l’arrivo di nuove truppe e miliziani a cavallo. Il racconto della Dessì pare cinematografico: i francesi conquistano prima Carloforte, poi Sant’Antioco, quindi cedono però alla resistenza iglesiente, in capo proprio ai miliziani (diversi dei quali cadranno travolti, nella follia della scena, dagli stessi loro cavalli imbizzarriti). Porqueddu ricompare per benedire e decorare i superstiti.
E’ da dire, per contestualizzare, che la morte del Porqueddu – appena tre anni dopo questi avvenimenti – priverà la Chiesa iglesiente del suo capo per svariato tempo, fino a che il bacolo pastorale non verrà affidato a una personalità che, a mio parere, forse più Porqueddu meriterebbe un biografo: monsignor Nicolò Navoni, il quale, dopo aver governato quella diocesi per giusto vent’anni, passerà per altri tre lustri alla maggior responsabilità della Chiesa cagliaritana.
Dell’archidiocesi che fu di Avendrace e Lucifero (a proposito: perché non fare una bella ricerca sui cinque vescovi cagliaritani che la crono tassi indica con l’aureola?) tratta Tonino Cabizzosu scrivendo di monsignor Paolo Botto in particolare negli anni del Concilio, che sono poi quasi quelli terminali del suo lungo episcopato sardo.
Giunto a Cagliari dalla sua Liguria nell’autunno 1949 – succedendo a monsignor Piovella che aveva governato la diocesi per quasi tre decenni (e in Sardegna era arrivato addirittura nel 1907) – Paolo Botto, autoritario e quasi marziale, efficientista e però portatore anche di tratti devozionali ingenui oltreché sinceri e perfino commoventi – realizza una completa trasformazione delle strutture ecclesiali, arricchendo la Chiesa locale di parrocchie, opere assistenziali e di un modernissimo seminario che ancora per qualche anno accoglierà a centinaia gli studenti delle medie e del ginnasio-liceo, prima di migrare a Cuglieri per i corsi teologici.
Il saggio del Cabizzosu ripassa minutamente le attività di presenza e quelle più attive o partecipative del presule cagliaritano all’evento conciliare, partendo dalla fase ante preparatoria (con i famosi “consilia et vota”), per analizzare le sottoscrizioni di vari documenti (dalla pastorale del turismo allo schema sull’impegno missionario, alle istruzioni sul ministero e la vita dei presbiteri) e riferire più in generale del suo “coinvolgimento” nelle delibere conciliari. Un prospetto sintetico inquadra bene la sua militanza in San Pietro, silente ma non passiva, e il suo “esserci” in alcuni degli snodi che segnano le quattro sessioni, fra il 1962 ed il 1965. Nel novero, il lavoro all’interno delle distinte commissioni sui Religiosi e sui Seminari e Studi.
Di particolare rilevanza ed efficacia, a mio parere, il paragrafo dedicato alla “promozione dell’ecclesiologia conciliare in diocesi”. Fu impresa faticosa, forse perché la formazione anche mentale del presule poco si adattava alla dimensione sinodale vissuta dal Concilio e deliberata come nuovo modello di vita delle chiese locali. Insieme con tale difficoltà personale, però, è da dire che Botto fu pienamente leale al Concilio e alle sue conclusioni. Purtroppo, pochi anni dopo la conclusione del Vaticano II, una malattia lo costrinse anzitempo a ritirarsi a vita privata.
Per certi versi speculare, per la visione ideologica, a quella di Botto è, pressoché nella stessa fascia temporale – poco prima poco dopo – la personalità di Sebastiano Dessanay, portatore di esperienze intellettuali e politiche che Gian Giacomo Ortu, che ne scrive, giustamente ed elegantemente sintetizza nella formula del “socialismo umanistico”.
Proveniente dalla Nuoro di Sebastiano Satta, tutta attraversata alla fine dell’Ottocento e nel primissimo Novecento da umori radicaleggianti e repubblicaneggianti, e anche forse socialisteggianti (non nei termini dogmatici però o massimalisti del socialismo italiano del periodo), Dessanay vive le sue prime stagioni professionali come insegnante elementare nel cuore della Barbagia, per poi lasciare tutto e trasferirsi a Roma dove si iscrive a Lettere e filosofia. Tornando in Sardegna e vinta la cattedra di storia e filosofia insegna al Dettori di Cagliari. Frequenta gli intellettuali che vivono nel capoluogo e alla caduta del fascismo aderisce alla Sinistra Cristiana e successivamente al PCI. Si impegna nelle lotte per la terra, contribuisce alle elaborazioni del Partito Comunista nei duri anni della guerra fredda. La invasione della Ungheria nel 1956 convincerà anche lui, come numerosi altri intellettuali e militanti comunisti, ad abbandonare il partito e migrare nelle fila del PSI.
A lungo consigliere regionale (come comunista nei primi otto anni, poi nel PSI del centro-sinistra, assessore all’Industria negli anni ’70), sarà una delle teste pensanti dell’Assemblea dell’autonomia sarda e tanto più della sinistra regionale, valorizzando progressivamente, dagli anni ’60, le ragioni e i contenuti della istanza identitaria che prende a salire nella considerazione della politica e prende anche a connotarsi in termini di relazione con le originalità o specialità etniche e culturali dell’intero bacino del Mediterraneo.
Pagine di storia offerte alla memoria di uno storico. E per l’occasione si fa storico anche un dotto professore di chimico, uno spirito puro di scienziato come Paolo Amat di San Filippo che apre la rassegna – ma la chiude in questo mio rapido ripasso – evocando gustosamente una prolungata polemica che nei primi decenni dell’Ottocento oppose alcuni commercianti sassaresi (spalleggiati da colleghi genovesi) agli interessi di una ditta inglese circa l’esclusiva di raccolta ed esportazione di un lichene sardo. I nostri archivi storici (e qui si tratta del Fondo Segreteria di Stato e di Guerra presente nell’Archivio di Stato di Cagliari) custodiscono carte come queste, che illuminano insieme economia, scienza (botanica nel caso) e psicologia umana. La vicenda, conclusasi con la reiterata sconfitta della petizione sassarese perché non suffragata da documentata giustificazione scientifica, sembra di una qualche importanza per il ruolo che vi ebbe, come patrono della compagnia inglese, William Sanderson Craig. Quel Craig destinato a venirsene, come console di sua maestà britannica, a Cagliari, dove mise radici e dove morì lasciando eredi.
Questo è il bel volume Numero Speciale in memoria di Tito Orrù, curato da Maria Corona Corrias. Esso onora il nostro amico e maestro, ma onora tutti quanti a lui hanno offerto, con il pensiero, anche l’esito di modeste fatiche.