di Sergio Portas
Da quando è mancata mamma, a novant’anni suonati giusto un anno fa, il tratto di mare che mi separa dalla Sardegna, si è fatto grande come l’oceano. Non c’è più chi mi racconti le cose di Guspini degli anni trenta e passa, quando tutti (o quasi) i bambini andavano a scuola scalzi e c’era giusto Licio Atzeni che si poteva permettere il lusso delle scarpe, ma lui era figlio di calzolaio. Con Licio mamma, Pinuccia Cherchi, era compagna di scuola: a scorrere le foto che Roberta Saba ha messo insieme nel suo “In Guspini” (editoriale Documenta 2011) ci si imbatte nella seconda elementare della scuola Grazia Deledda dell’anno ’29-30, foto n°176, ci dovrebbero essere ambedue tra quei cinquanta bambini dagli sguardi seriosi che circondano una maestra che sapeva indubbiamente come far rispettare la disciplina. E’ pur vero che erano quelli tempi di grandi ubbidienze collettive e se il fascismo dominante sapeva far marciare ogni sabato avanguardisti e figli della lupa, nonché piccole italiane, figurarsi se i maestri del tempo potevano avere difficoltà nell’ottenere il silenzio assoluto nelle loro lezioni cattedratiche. Licio Atzeni comunque ebbe vita di sindacalista e fu politico comunista, anzi ho spesso arzigogolato che la scelta di chiamare suo figlio Sergio dipendesse anche dal fatto che questo fosse un nome “russo”, una sorta di marchio di sinistra, così penso che fu la scelta del mio del resto. Cosa non infrequente in quella specie di Stalingrado minore che si considerava la Guspini del dopoguerra, dove i voti che il partito comunista mieteva alle elezioni sfioravano spesso la maggioranza assoluta, con la miniera di Montevecchio a far da matrice. Sergio Atzeni è del ’52 e prima di annegare nel mare in tempesta di Carloforte , era il settembre del ’95, ebbe modo di scrivere molto alternandosi con diversi registri espressivi. Dal romanzo ai numerosi racconti, alla fiaba. E al lavoro di cronista di giornale. Anche a lui toccò in sorte di passare il mare per cercare di sfangare la vita in continente, e come tutti i sardi emigrati si interrogò per tutta l’esistenza di quale natura fosse composto quel sentimento che lo teneva ancorato all’isola natia. Senza mai poter scegliere in quale lingua Morfeo avrebbe permesso ai personaggi dei suoi sogni di esprimersi nel dormiveglia del mattino. “Credo che la lingua sarda sia bellissima, scriveva, per quanto riguarda la varietà che amo di più e che so parlare, il cagliaritano, mi dispiace che si perda perché è idioma straordinariamente ricco, adatto all’insulto, all’invettiva, al racconto buffo, ed è anche la fonte di quell’italiano bislacco parlato a Cagliari, mescolando parole, costrutti linguistici. Questa è una ricchezza, ogni volta che più lingue producono mescolanza e contaminazione c’è arricchimento…Immetto nell’italiano delle quantità di sardo, seppure molto limitate. Se avessi la capacità di immetterne di più mantenendo merito artistico e comprensibilità lo farei, perché credo che uno dei compiti dello scrittore sia arricchire la lingua. L’unico modo in cui posso arricchire la lingua italiana dal punto di vista dei vocaboli è recuperandoli dall’esperienza sarda”. La Cagliari dei rioni popolari fu la miniera inesauribile di personaggi che occuperanno i suoi scritti, facendo seguito ad un modo narrativo in cui il racconto orale delle individualità rimane sotteso nella scrittura, modo molto sardo del resto che è tratto distintivo, ontologico viene da dire, di molti scrittori isolani. Non a caso Marta Proietti Orzella che con Alessandro Aresu ( lui si occupa dei suoni e delle musiche armeggiando tra chitarra, sinth, percussioni, cajon) mette in scena uno spettacolo al teatro Elfo Puccini di Milano: titolo: “Cantar l’Altrove” , prosa e poesia di Sergio Atzeni, da “Versus” e “I sogni della città bianca”, esordisce con: “Parole, ecco quel che ricordo. Le parole cagliaritane dei vicini di casa: zerrius, scraccaglius, fastimus, cantus, boxis, sonus, prantus, arrisus”. L’Orzella e Aresu sono cagliaritani ambedue quindi in perfetta sintonia d’intenti di questi scritti di Atzeni che non sono fra i più conosciuti della sua produzione narrativa. Del resto di “Versus”, che pure è edito da Feltrinelli, non riesco a trovarne una copia in nessuna delle numerose librerie milanesi, per i “Sogni della città bianca” sono più fortunato che vanno navigando insieme ai mille e mille libri che si possono leggere nell’oceano mare di internet. Marta Proietti Orzella è molto brava nel calarsi nei diversi personaggi che Atzeni fa parlare nei suoi scritti, le basta mettersi in capo un fazzoletto nero perché diventi beghina impenitente che nella “Storia della Monaca” si permette di esordire così: Non per sparlare della morta, pover’anima, diomenescampi, ancora calda nella bara, e noi qui che seguiamol’amatissimo feretro, ma Maddalena, da giovane, era magra e pallida, uno stecco passato in lisciva, ti dico, studiosa e religiosa, bigotta cioè, sempre appiccicata alle sottane di Don Mosè, fino alla terza magistrale. Allora hacominciato, con le coglionate.
Il tutto in un’atmosfera resa più triste da una scenografia immersa in un buio che fa ancora più bianche le facce dei due attori-musicisti, e rende i gesti d’espressione come fuoriusciti da una oscurità parente stretta dell’inconscio. Terribile è del resto il racconto di questa monaca mancata che , dal convento di Bressanone dove non si capisce bene cosa accada, rientra in Sardegna per accudire la anziana madre e, recita l’attrice, occuparsi preventivamente dell’eredità. Ma ora anche lei è morta e, chiude il monologo l’attrice: “Non per sparlare della morta, pover’anima, diomenescampi, ancora calda nella bara, e noi qui che seguiamo l’amatissimo feretro. Ma era proprio una troia!”. La storia di “Carluccio e di colui che narra” mi fa venire la pelle d’oca ancora adesso a pensarla, La Proietti Orzella riesce a rendere il personaggio del pazzo che racconta la storia così reale che pare mutarsi in maschio, lei così femminile, per magia della fata che regna nel teatro:
Sono il musicista del manicomio. Non è strano: sono matto anch’io, come gli altri; in più suono la chitarra, e conosco storie che altri non conoscono; le cantavo, le mie ballate, anche quando non ero matto; le canto ancora; storie comuni, di donne. Gelosie.
Finisce molto male, come spesso le storie che Sergio Atzeni è andato collezionando nella sua non lunga vita, Salvatore Mereu ne ha riproposto alcune nel suo fortunato lungometraggio “Bellas Mariposas”, dove ha disegnato le figure di Cate e Luna, due undicenni che vivono in un quartiere di periferia di una Cagliari assolata e spietata, circondate da un ambiente famigliare dalle fondamenta improbabili che prefigura un futuro che più incerto non si può. Mi piace come scrive Sergio Atzeni, e di lui mi piacciono le problematiche che sottendono il suo volersi esprimere con la penna, questa impossibilità di svestirsi di una sardità ineluttabile, in un contesto oramai più europeo che italiano. La sua persuasione che non ci sarà una rivoluzione che ponga fine ai dolori del mondo, e che è la voce dei poveri e degli sconfitti ad arricchire le note delle canzoni che ci formano e ci ammaliano. Come i muttettus di una volta: quell’innamorato respinto che si rivolge a Lei cantando: “Si mmi bbis interrai/ inzaras m’as a kkrei/ ingratu mm’as a nnai/ kust’è mmortu bo mei”. Trallalleru lerà lerà lalleru…Lei la Sardegna.