di Lino Dore
Prima che, attraverso l’agricoltura, l’uomo imparasse a coltivare il cibo di cui si nutriva, i cacciatori raccoglitori si limitavano a cogliere quanto offriva spontaneamente la natura, con la quale vivevano in armonia, cacciando selvaggina e cibandosi degli alimenti commestibili presenti nel territorio circostante, sempre diverso, in un’esistenza errante che costringeva a portare con se solamente quanto era indispensabile. Gli ingredienti di quell’alimentazione ancestrale, erano molto diversi dall’attuale globalizzata e multiculturale, certamente molto più semplici, naturali e genuini. Abbandonata la vita errante l’uomo da cacciatore e raccoglitore si trasformò in agricoltore ed allevatore, coltivando le stesse piante che prima raccoglieva in natura ed allevando in cattività gli animali che aveva cacciato allo stato selvatico per millenni, come pecore, capre, galline, conigli e cinghiali, lasciati comunque allo stato semibrado. Questa rivoluzione, verificatasi alla fine del Paleolitico, avviene agli inizi in modo impercettibile, i primi orti e frutteti erano probabilmente preesistenti in natura, trovati e recintati dall’uomo per proteggere i frutti durante la maturazione, prima di consumarli. L’alimentazione, nel suo percorso evolutivo, ha maturato esperienze, aggiunto qualche accidentale scoperta, introdotto pochi nuovi alimenti portati da occasionali visitatori, ma la dieta della Sardegna rurale, sino all’avvento delle grandi dominazioni, si basava fondamentalmente su latte e suoi derivati, verdure dell’orto, frutta colta dagli alberi intorno alla casa e vino, tutti prodotti in maniera tradizionale, con la collaborazione di sole e vento, l’utilizzo di soli prodotti naturali per garantire qualità, incrementare la produzione, soddisfare le esigenze del proprio gruppo familiare, affidando alle stagioni il compito di diversificare la qualità dei cibi. Questa alimentazione varia, costituita da prodotti semplici che oggi chiamerebbero a chilometri zero, ha conservato la sua specificità sin dall’epoca nuragica, ancor prima che l’isola diventasse crocevia di traffici e commerci con Fenici, Punici e Romani. L’alimentazione tradizionale della Sardegna è la risultante complessa delle diverse epoche che ne hanno caratterizzato la storia e le dominazioni succedutesi nell’isola, hanno innestato, nell’alimentazione tradizionale sarda, elementi della loro, facendo conoscere prodotti nuovi provenienti da terre lontane, che in alcuni casi sono entrati a far parte profondamente del bagaglio enogastronomico dell’isola. Grano, farro, olivo e persino la vite sarebbero arrivati dall’esotico oriente, patate, pomodori, mais e tanti altri ortaggi dal lontano continente americano e man mano che le scoperte geografiche allargavano gli orizzonti, nuovi alimenti entravano a far parte della dieta dei Sardi, anche se l’alimentazione locale ha conservato, sempre latente, quella caratteristica di autoproduzione che anche oggi, contraddistingue la cucina tradizionale sarda, tanto apprezzata nel mondo.Nella varie epoche ha raggiunto gradi di eccellenza in alcuni settori artigianali, come nella produzione e l’esportazione della pasta di diverse fogge, che proprio in Sardegna ha raccolto numerosi attestati di gradimento che indicano come fosse rinomata nel bacino del Mediterraneo. Oggi, tanti piatti della cucina tradizionale, riconducibili indissolubilmente alla Sardegna, sono tanto apprezzati, che alcune specialità sono state adottate, copiate, riprodotte e gustate in tutto il mondo. Il processo della globalizzazione culinaria, responsabile della perdita di tante specificità frutto di secoli di sana cultura alimentare, contribuisce ad impoverire l’originaria genuina alimentazione, per sostituirla con pochi banali preparati ormai internazionali; l’appiattimento gastronomico non riuscirà a compensare la sparizione di tanta biodiversità e pluralità alimentare.