Il circolo Sardi Uniti di Buenos Aires si trova in una lunga via alberata dove i palazzi del centro hanno lasciato lo spazio alle case familiari, intervallate da murales e da qualche giardino. Per loro è la fine dell’estate, quel tempore frenato dal vento fresco e dall’ombra. La sede sta proprio alla fine della strada, dopo alcuni incroci. All’ingresso c’è la targa in ceramica, lucida e sgargiante come se fosse stata appena posta. La storia però è dietro quella porta dove la prima vista è tutta per il cartello “Benvenuti a Buenos Aires”. Qua il benvenuto non si calpesta sullo zerbino ma è ben visibile in tutta la permanenza al circolo. Un soffitto verde, in legno fa da tetto ad un grande salone dove il fresco è prodotto dalle classiche ventole sul soffitto mentre per l’inverno un impianto di riscaldamento degli anni 60 è presente nei vari lati del salone ancora in perfette condizioni. Tra i primi ad incontrare c’è Margarita Tavera, coordinatrice dei circoli sardi in Argentina, oltre ai tanti volti che vedo per la prima volta ci sono Jorgelina e Gabriela che nel 2011 parteciparono alla Summer school per figli e nipoti di emigrati sardi a Cagliari e che continuano ad essere attive nei propri circoli. E’ come stare in famiglia, tra il salone e la cucina, perché in questo circolo c’è la cucina, 2 posti letto, un ufficio e una sala per i convegni. La storia di questa sede me la racconta Cosimo Tavera, il pioniere dell’emigrazione sarda in Argentina e col tempo questa sede ha accolto gli emigrati, numerosi italiani di passaggio ma anche tante iniziative culturali che rivivono nelle fotografie e nelle targhe appese al muro o custodite in bacheca. Senti parlare spagnolo, italiano e sardo come fosse una sola lingua e si sente anche musica sarda, da Andrea Parodi ai tenores come una colonna sonora che non si spegne mai, diminuisce e aumenta di volume a seconda delle voci che la sovrastano e non vede mai i titoli di coda di questa storia di emigrazione che continua ancora oggi in forme diverse. “Deu seu sarda” dicono le donne del circolo mentre vanno avanti e indietro per allestire la riunione o per portare qualche piatto dalla cucina. Come nelle vita anche nel circolo sono le donne il motore dell’attività, raccontano le loro storie, non riescono a tenere per loro quella sardità rimasta intatta nel tempo. La lingua non ha subito contaminazioni dall’italiano, le vicende politiche e sociali non hanno mutato quella nostalgia che le porta a tornare sempre nell’Isola. Se la Sardegna è troppo lontana non rimane che portarne un po in Argentina e così se prima si viaggiava con 6 bottiglie di liquore di mirto ora il mirto lo si coltiva a Buenos Aires mentre Pietro Pintus 92 anni fa ancora il vino e l’acqua vite in casa. Gli anziani sono emigrati dal dopoguerra in poi per dare sollievo alla povertà e alla spaventosa crisi che investiva la Sardegna. Si partiva verso la terra più lontana del mondo, con un mestiere in mano e quella valigia di cartone che in 25 giorni di nave diventava la culla per affrontare il mare. Si partiva per disperazione perché ad una vita da figlia maggiore con un padre vedovo e con la condanna di doversi occupare per tutta la vita di 2 famiglie si preferiva sposarsi per procura e raggiungere lo sposo in Argentina per conseguire una laurea e realizzare i propri sogni. C’è anche chi la Sardegna non l’ha mai vista, è il caso di Victoria e Adriano, giovani nipoti di emigrati che parlano l’italiano, capiscono il sardo e vorrebbero visitare la Sardegna. In quel salone l’ossigeno è l’accoglienza e ogni storia è diversa, non si tratta dell’intervallo tra sardi e Sardegna ma di un nodo più stretto, teso sul mappamondo. Non c’è articolo, film o libro che riuscirà a farvi emozionare e commuovere come lo sguardo di chi vi racconterà la propria storia di emigrazione. Per chi come me non ha emigrati in famiglia, incontrare e conoscere queste vite è come riabbracciare i propri parenti.
* cagliari.globalist.it