La tragica vicenda bellica dell’affondamento della motonave Neptunia, adibita nel 1941 per il trasporto di truppe italiane verso il fronte libico, è stata rievocata recentemente dall’ultranovantenne Giovanni Michele Pittalis.
Il Pittalis, nato a Illorai (SS) il 27 dicembre 1918 e con un passato lavorativo di pastore e contadino, era allora un giovane soldato appartenente al XX Reggimento Artiglieria Contraerea, aggregato alla Marina Militare con funzione di difesa del convoglio (composto anche dalle motonavi Vulcania ed Oceania e scortate dai cinque cacciatorpediniere Da Recco, Da Noli, Usodimare, Pessagno e Gioberti) salpato da Taranto il 16 settembre e con destinazione Tripoli.
I ricordi del militare illoraese – pubblicati da “La Nostra Presenza”, Organo ufficiale dell’Associazione Nazionale fra Mutilati ed Invalidi di Guerra e della Fondazione – ripropongono nitidamente e con dovizia di particolari, i drammatici ed indelebili momenti del siluramento e dell’affondamento della motonave Neptunia, colpita da un siluro del sottomarino britannico Upholder del leggendario, e “famigerato predatore delle nostre unità”, comandante David Wanklyn. Attraverso le parole di Giovanni Michele Pittalis si rivive il drammatico episodio bellico e umano che ha registrato la perdita di 384 persone, tra militari e membri dell’equipaggio, e l’affondamento di importanti navi che erano frutto e vanto della cantieristica nazionale. Il primo siluro dell’Upholder colpì la Neptunia “a poppavia del traverso di sinistra, provocando quasi immediatamente la perdita di energia elettrica”, mentre il secondo “centrò l’Oceania molto più verso poppa, quasi nella zona dell’asse dell’elica di sinistra”.
“La mattina del 18 settembre alle ore 04.00, – ricorda il Pittalis – a largo di Misurata (Tripolitania), un sommergibile inglese partito da Malta, silurò la nave Neptunia. Il convoglio con cinque cacciatorpediniere di scorta era composto da altre due motonavi: Vulcania e Oceania. Quella mattina, prima dell’alba, sono stato svegliato da un boato che ha fatto traballare la nave. Sulle prime ho pensato che fosse una delle solite bombe di profondità, sganciate dai nostri cacciatorpediniere. Poi la sirena, il segnale abbandono nave. Furono attimi di smarrimento, poi in compagnia di un certo Trefiletti, mi sono calato dalla parte opposta dell’inclinazione della nave. Una volta in acqua non abbiamo avuto il coraggio di mollare la presa della corda e quindi siamo risaliti a bordo, ma dei marinai ci hanno indotto a buttarci in mare (realmente ci hanno lanciato fuori bordo, evitandoci di inabissarci con il Neptunia che colò a picco dopo circa 3 ore). Ricordo perfettamente tutto di quei momenti, col pensiero rivivo anche la sensazione di sgomento e terrore, mentre ero in balia delle onde, mentre le scialuppe non erano sufficienti per tutti. I ‘mattoni’ galleggianti del giubbotto salvagente, nello sfregare mi provocarono una dolorosa ferita sul mento, ma non era la cosa peggiore in quei momenti. Con altri due sventurati sono riuscito ad aggrapparmi con tutte le mie forze ad una trave di legno. E’ stata l’ancora di salvezza: il mare era agitato, tutt’intorno le urla dei naufraghi, la paura di morire è stata la compagna di quelle interminabili ore. Siamo stati ripescati, stremati e increduli, dopo circa 6 ore, dal cacciatorpediniere Gioberti, che ci ha condotto a Tripoli. Scesi a terra, ci hanno fatto spogliare dei pochi indumenti che ancora avevamo addosso. La percezione fu terribile: nudo, nudo di tutto, spogliato degli affetti, della famiglia, della mia terra e ora degli indumenti. Salvo da cosa? Dove era la mia dignità di uomo? Siamo stati accolti dalle crocerossine, ci hanno dato prima delle mutande (sensazione indescrivibile, copro la mia nudità, sarò eternamente grato per questo gesto), poi caffè col cognac, sigarette, scarpe e gavette. In seguito siamo stati portati in un campo, vicino a Tripoli, al 20° chilometro. Al trauma subito dal naufragio, si aggiunse la dissenteria, che aggravò la pesante condizione di soldato e di uomo. Un ricordo affettuoso va sempre al sostegno del sergente Sulotto del Piemonte. Lascio immaginare il mio stato d’animo in quei giorni.”
L’affondamento della Neptunia e Oceania fu solo uno dei tanti tragici episodi della cosiddetta “battaglia dei convogli”, che si svolse nel Canale di Sicilia, tra il 1940 e il 1943 ed accomunato storicamente alle perdite del transatlantico Conte Rosso, dei convogli Tarigo e Duisburg, degli incrociatori Da Barbiano, Di Giussano, Armando Diaz e del trasporto truppe Esperia. I viaggi di rifornimento, verso la Libia e a sostegno dell’esercito italo-tedesco nel Nord del continente africano, furono circa duemila: la destinazione fu raggiunta dal 92% del personale militare imbarcato e dall’86% degli equipaggiamenti, con una perdita di 227 navi. Stessa sorte tocco al mezzo migliaio di convogli per il fronte tunisino: raggiunsero i porti il 93% degli uomini e il 70% dei materiali, con una perdita di 101 navi.
E nello spirito e finalità dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra e Fondazione (ANMIGF), costituitasi spontaneamente a Milano nel lontano aprile del 1917 e che anche in Sardegna conta diverse sezioni animate da idealità che mirano al consolidamento della Pace, l’anziano illoraese tziu Zuanne Micheli tiene a sottolineare, con saggia fermezza, di aver sempre “ripudiato la guerra” perché “annienta la dignità dell’uomo” e che in assoluto “nessun fine può giustificarla”. Giovanni Michele Pittalis, che nel dopoguerra ha svolto continuativamente un’attività commerciale nel suo paese natio, con la diffusione pubblicistica dei suoi ricordi, legati al giovanile e tragico periodo bellico che ancora racconta volentieri ai suoi quattro figli e otto nipoti, spera di poter ritrovare e magari poter rincontrare qualche longevo naufrago della motonave Neptunia.