FESTEGGIAMO TRENT'ANNI DI CRISI: RIFLESSIONI A MARGINE DELLA MOSTRA DI SATIRA A BURGOS (SS) "S.O.S. SARDOS"

La vignetta era stata scelta da Franco Putzolu, scomparso nel 2011, in previsione di una mostra e di un libro che aveva in animo di realizzare con Paulesu.


di Luca Paulesu

E’ in esposizione dal 13 dicembre 2013 presso il Museo dei Castelli di Burgos (SS) la mostra S.O.S. Sardos –Festeggiamo trent’anni di crisi. Opere di Franco Putzolu ne Il Messaggero Sardo.

Per la cura di Luca Paulesu e in collaborazione con Il Messaggero Sardo, la mostra è costituita da 90 tavole di Franco Putzolu, originali e riprodotte in copia, pubblicate dal 1983, ordinate in otto sezioni tematiche il cui argomento è introdotto dalle prime pagine del periodico.

Realizzata su un progetto omonimo di Franco Putzolu, storico vignettista de L’Unione Sarda e de Il Messaggero Sardo, i cui personaggi principali del pastore e dei quattro mori sono considerati rappresentazione popolare grafica degli emblemi identitari, S.O.S. Sardos, costituisce la prima tappa di una sperimentazione per raccontare, attraverso il giornalismo e la satira, un’epoca storica e un luogo.

Già nell’equivoco del titolo S.O.S. Sardos, indicato da Putzolu stesso, da intendersi nella duplice accezione del “S.o.s.”, sia articolo della lingua locale sia invocazione internazionale di richiesta di aiuto, è riconoscibile l’intenzione dell’autore di contravvenire alla tentazione di risolvere l’esposizione della propria produzione artistica in senso esclusivamente cronologico:

«La nostra è un’identità bloccata e lavorare per me è diventata una pratica psicanalitica. Ammettiamolo, se dopo quarant’anni di lamenti e di proclami non riusciamo a risolvere i numerosi problemi che ci affliggono, ciò vuole solo dire che non li vogliamo risolvere. Ad esempio, noi sardi, la continuità territoriale non la vogliamo. Punto e basta. Non ne parliamo più. La Carlo Felice … smantelliamola! Ma facciamo almeno pace con noi stessi.

Ogni nuova notizia, anche la più eclatante e drammatica, è un déjà vu. Vado a spulciare il mio archivio e trovo una vecchia vignetta fresca fresca per l’uso. Siccome potrei commentare le notizie di oggi riutilizzando le vignette prodotte venti… trent’anni prima ma non voglio ripetermi, e soprattutto non voglio cedere al sentimento di rassegnazione che animerebbe le mie tavole, allora penso al passato, allo sdegno che mi assaliva, e recupero energia. Il mio lavoro è diventato questo: registrare che non c’è niente che ci aiuti a capire che il tempo passa».

I quattro mori di Putzolu, liberati dal vincolo della benda si avventurano tra le pagine del Messaggero e ci aiutano a decifrare ragione e misura storiche di questa desolazione. Non ci imbattiamo mai in un momento di rottura, in un punto di non ritorno. Tutto resta sospeso, incompiuto. Le promesse non saranno mantenute, gli entusiasmi verranno frustrati, i piani di sviluppo nasceranno viziati, i rinnovamenti già morti, i progetti comuni non saranno condivisi. Le figure della politica che si sono alternate a determinare questo lento e progressivo stato di abbandono rimangono sullo sfondo.  C’eravamo sbagliati anche su di loro, erano solo mezze figure da dimenticare.

Trent’anni fa Putzolu aveva cominciato a smantellare i pozzi delle miniere – titolava il Messaggero Sardo: Il carbone del Sulcis ha ancora un futuro? e quindi a ricoprire di polvere e di ragnatele i simboli di uno sviluppo industriale eteronomo e tardivo, a trasformare graficamente la linea di mezzeria di sorpasso dell’allora, ma anche della tutt’oggi, incompiuta superstrada Carlo Felice, in una lunga processione di croci bianche.

Con la perfidia di una Pizia in vena di scherzi, Putzolu partecipava al trionfalismo tottus in pari dell’ennesimo “neonato” Piano Regionale sulla Continuità Territoriale, appena fondato – udite udite!– sul colosso Alitalia!

E poi c’è la lingua sarda, che, – prima di rappresentare un problema di legislazione regionale da risolvere: Entro sei mesi la legge sul bilinguismo -, dovrebbe essere idioma, linguaggio, parola, ovvero comunicazione, comprensione, appartenenza, condivisione, poesia, sentimento.

Nei suoi dialoghi Putzolu usa la sua lingua con parsimonia, mai a caso, quel tanto necessario per legittimare la propria distanza, culturale e morale, dall’interlocutore del momento. Alla notizia che «il sardo non è una lingua ma un idioma locale…» appresa da una radio a transistor, il pastore che in totale, bucolica solitudine ascolta, commenta tra sé: «peccau … mi biemmu giai interpreti».

L’importanza della lingua sarda? Scherziamo? A che serve la parola se nessuno comunica più?

La lingua dei sardi, anatomicamente intesa, Putzolu preferiva ritrarla inchiodata, mozzata, incernierata, resa muta e quindi inutile.

Su ogni argomento Putzolu è risolutivo, impietoso, quanto il Messaggero, letto oggi, appare spietato in modo chirurgico.

Un articolo del dicembre 1999 – Le inondazioni una emergenza storica – successivo a una drammatica inondazione che aveva provocato vittime e danni per mille miliardi nella Sardegna meridionale, fa la disamina storica dei problemi e dei rischi idrogeologici dell’isola e la puntuale elencazione dei tragici precedenti. Per commento seguiva una crudele vignetta di Putzolu: “Fine della siccità” – “Adesso voga”.

Da allora sono passati quindici anni.

Ciò che colpisce, rileggendo l’articolo all’indomani dell’ennesima sciagura, non è più che il disastro fosse stato annunciato con biblico anticipo, che chi avrebbe dovuto rispondere a quell’allarme con l’azione sia rimasto sordo e inerte, che le stesse parole dolorose e accorate di ieri siano spendibili identiche oggi. Sorge spontaneo l’atroce sospetto che il senso di smarrimento per il vuoto assoluto che promana dal passato, così simile a quello percepito nel presente, ci debba accompagnare immutato come un nuovo stato dell’anima anche in futuro.

Viene la voglia di rifugiarsi in un nuraghe. Affittare uno dei nuraghi che Putzolu proponeva in equo canone ai turisti fin dai ruggenti anni Ottanta. Per la Sardegna la crisi era iniziata allora. Se tutto intorno è fermo e immobile, almeno il nuraghe la sua buona ragione ce l’ha: l’hanno concepito così. In economia: ma per durare millenni. E dentro al nuraghe brindare con Putzolu ai trent’anni di crisi appena trascorsi, senza affliggerci troppo, ma per resistere in piedi e affrontare – non si sa mai – questa volta in un luogo perennemente sicuro, le sempre vecchie fregature che ci riserva il domani. 

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