A dicembre del 1926 è stato conferito il premio Nobel a Grazia Deledda, evento tanto evocato quanto bistrattato della nostra memoria collettiva. Il riconoscimento internazionale pare aver fatto più male che bene alla considerazione diffusa della scrittrice nuorese, trattata spesso come un’usurpatrice di fama immeritata, o – dai sardi – come una traditrice della sua stessa stirpe. Anche il discorso strettamente letterario sul suo conto è fortemente polarizzato tra gli appassionati e i denigratori, ma questi ultimi prevalgono di gran lunga.
Una prima difficoltà nel rievocare e nel valutare la figura di Grazia Deledda è segnalata dalla sua complicata collocazione nel panorama letterario. Intanto, collocazione in quale panorama letterario? La risposta più scontata è che il panorama letterario di riferimento debba essere quello italiano. Prendendo per buona questa collocazione, emergono immediatamente i dubbi, le contraddizioni e le oscillazioni critiche dovute alla condizione anche personale (oltre che letteraria) ambigua della Deledda. Nata e cresciuta sardofona, aveva imparato l’italiano (male, a suo dire) da grande, più dalla lettura e dallo studio personale che dalla scuola. Di scuola del resto ai suoi tempi se ne faceva poca. Giusto due anni o tre. E non c’entra molto, qui, come invece viene quasi sempre dichiarato, la questione di genere. I bambini sardi, maschi o femmine che fossero, se non appartenevano a classi privilegiate e non erano destinati allo studio o alla tonaca, la scuola la abbandonavano comunque presto, posto che la iniziassero. Si trattava, però di una persona intelligente e talentuosa, ben al di là del grado di istruzione raggiunto. Su questo non credo possano esserci dubbi. E anche ambiziosa. Ecco, questa caratteristica, che poi le ha fatto fare le scelte che ha fatto, è forse quella che è stata capita di meno, a Nuoro, dai suoi contemporanei. A Grazia Deledda stava stretta la condizione periferica in cui sentiva costretta la sua verve narrativa e la sua sete di conoscenza del mondo. Inoltre è lecito supporre che lasciare Nuoro fosse necessario anche dal punto di vista professionale, per non farsi irretire dai condizionamenti che la sua permanenza nei luoghi scelti per i suoi romanzi le avrebbe procurato.
Tuttavia è evidente la sofferenza e l’incompiutezza, alla fine, del rapporto sentimentale e intellettuale della Deledda con la propria terra. Consapevole della sua estraneità al contesto culturale italiano, nel quale doveva inevitabilmente operare (l’alternativa era il dilettantismo locale, non certo la fama mondiale), non poteva che cercare forme di mediazione e di ibridazione che fossero al contempo soddisfacenti per lei e efficaci in termini di effetto narrativo. Il suo stile, così enigmatico per i critici, si giovava della sua sardofonia, costringendo gli elementi lessicali e morfologici italiani dentro un contesto sintattico e un campo di connotazioni e riferimenti del tutto sardi. Ma questo è l’aspetto meno colto dai lettori e anche dalla critica, che invece (gli uni e l’altra) si soffermano molto di più sui contenuti e sulle ambientazioni delle narrazioni deleddiane. Lì si gioca il conflitto – spesso acerrimo – tra detrattori e ammiratori della scrittrice. Lì emerge la difficoltà di rappresentare la Sardegna e i sardi in termini romanzeschi rivolgendosi a un pubblico che della Sardegna aveva (e ha) un’idea sostanzialmente folkloristica, o da cartolina. Spesso alla Deledda è stato rimproverato di aver contribuito alla costruzione del mito identitario sardo nei termini debilitanti e subalterni in cui si è formato. Gli anni della costruzione di questo mito tecnicizzato sono gli stessi del suo percorso biografico e del suo successo letterario, in fondo. Ma occorre anche precisare che la stessa Deledda dentro questo mito identitario ci era cresciuta e si era formata. Lei stessa doveva sopportare la difficile dialettica tra la Sardegna reale, la sua complessità, i suoi problemi, e la Sardegna oleografica delle storie di banditismo o di avventure esotiche, affrontare il nodo della profonda intraducibilità culturale che l’appartenenza dell’isola allo stato italiano unitario aveva generato. E di questo la stessa Deledda soffriva, come traspare dal suo epistolario e dalle sue dichiarazioni pubbliche. L’impressione è che si scarichi su Grazia Deledda una responsabilità che in realtà è molto poco sua e appartiene invece a tutta la classe intellettuale sarda tra Ottocento e Novecento, molto più che a lei. Alla classe intellettuale sarda come funzione organica del sistema di potere operante in Sardegna, allora e oggi. La Deledda è vittima da un lato di un’ostilità eccessiva o non del tutto giustificata (in termini politici e culturali) da parte dei sardi (suoi contemporanei e anche attuali), dall’altro di una sorta di costante tentativo di ridimensionamento, operato dall’accademia italiana, che non sfocia nella damnatio memoriae solo in virtù del Nobel assegnatole. Basti leggere la voce relativa alla scrittrice nuorese sulla Teccani o nel Dizionario biografico degli italiani illustri (sempre della Treccani), per capire come sia valutata l’opera e la figura della Deledda dall’establishment intellettuale italiano. Voci ancora oggi infarcite di razzismo, pressapochismo storico e informazioni spesso parziali o fantasiose sulla Sardegna di quegli anni. Grazia Deledda, insomma, è un esempio piuttosto significativo del travaglio della Sardegna contemporanea. Travaglio che non ha risparmiato niente e nessuno, nemmeno chi apparentemente ha tratto vantaggio dalla nostra dipendenza italiana. Più che con lei, la critica dovrebbe prendersela piuttoso con chi ha cercato di scimmiottare il suo stile o le sue ambientazioni. L’estraneità della Sardegna alla storia e alla geografia italiane è derubricata, nell’ambito editoriale e novellistico italiano, a esoticità regionale, a pittoresco, a bozzettistico, con l’avallo e la certificazione dell’accademia e dell’intellettualità sarde. Un modo efficace di depotenziare il problema e depurarlo della sua qualità politica.
Di questo tuttavia non possiamo accusare Grazia Deledda, che alla fin fine dovrebbe essere valutata più correttamente come una dei massimi epigoni della letteratura nazionale sarda in italiano, più che come un’esponente della letteratura italiana regionale (dunque minore). La forza narrativa dei suoi scritti, la loro efficacia letteraria ne emergerebbero compiutamente, al di là dei gusti e delle mode, e anche delle polemiche dovute alla nostra cattiva coscienza di sardi minorizzati.
Chi tocca Grazia tocca un popolo
Ottima lettura. Punto di vista affascinante. Un tema da riprendere e approfondire. Grazie!