di Marco Salis
Ricordo bene il momento in cui, nell’estate 2006, ricevetti una lettera dell’Agenzia Regionale per il Lavoro, con la comunicazione dell’attribuzione di una borsa di studio “Master&Back” per l’alta formazione post-universitaria. Lo ricordo bene perché quella lettera chiuse definitivamente un capitolo della mia vita, caratterizzato da ritmi, luoghi, e volti familiari, per cominciarne un altro in cui sarei stato più di prima artefice del mio destino, confrontandomi con i pro e contro di un nuovo inizio e facendo veramente i conti con me stesso. Di lì a poco avrei lasciato la Sardegna per Firenze – che sarebbe diventata la mia seconda casa per quasi sei anni – e avrei anche, in qualche modo, oltrepassato quei confini mentali oltre che geografici che sentivo parte dell’insularità e della mia vita fino a quel momento. Chiarisco subito che quando parlo di confini mentali non includo alcun giudizio di valore, né alcuna implicita preferenza data al vivere fuori o dentro la nostra splendida terra, per la quale il mio amore già grande è successivamente cresciuto. Anzi, gli anni successivi al mio trasferimento hanno generato in me la consapevolezza di essere in qualche modo condannato a vivere non più una, ma piuttosto due “mezze” vite. Quella ormai dimezzata di chi cerca come può di tenere stretti i legami con luoghi e soprattutto persone care – vedendo altri rapporti inevitabilmente sgretolarsi per effetto del tempo limitato e a volte del disorientamento generato dalla tua evoluzione – e quell’altra che ancora fatica a delinearsi e a trovare una sua pienezza, e che ogni tanto ti dà la spiacevole sensazione che sarai sempre straniero in terra straniera. Nel mio caso, la differenza tutta soggettiva tra chi consapevolmente (e spesso lodevolmente) è rimasto in Sardegna e lotta per costruire lì la propria vita con annessi vantaggi e limitazioni, e chi invece sceglie di esplorare altre rotte, è stata data da ragioni di carattere umano, culturale e professionale. Sentivo il bisogno di arricchire e diversificare la mia esperienza e la mia visione del mondo, di ricevere nuovi stimoli culturali, e di trovare applicazioni pratiche per la mia formazione umanistica e storico-artistica. Per queste ragioni Firenze, con il suo impareggiabile patrimonio artistico, la qualità e frequenza di mostre ed eventi culturali, ed il suo carattere internazionale dato dalla massiccia presenza di turisti, studenti e lavoratori da ogni parte del mondo, è stata la mia prima scelta quando si è presentata l’opportunità di fare un master in management degli eventi artistici e culturali. Sono molto grato per quell’opportunità, che è stata feconda di conseguenze sotto tutti gli aspetti della mia vita e ha inaugurato un periodo che mi ha trasformato irreversibilmente. Sono stati sei anni di opportunità professionali e culturali che non avrei avuto a Cagliari (chi avrebbe pensato di catalogare una collezione d’arte che comprende opere di Giotto, Perugino e Filippino Lippi?), e di tante conoscenze e amicizie con persone fantastiche e diverse, che hanno contribuito a plasmare quello che io sono oggi. Quest’opportunità mi ha dato, inoltre, un punto di vista nuovo sulla mia terra d’origine: quello del viaggiatore curioso e appassionato, che ad ogni occasione cerca di sfruttare quella manciata di giorni a disposizione per scoprire e ri-scoprire posti fantastici e pezzi unici di storia, paesaggio, e cultura enogastronomica. Quel viaggiatore un po’ insider e un po’ outsider che si lascia abbracciare dall’accoglienza e dall’affetto unici della propria gente, e cerca di comunicare loro impressioni ed esperienze usando una lingua che, pur essendo la stessa, è resa meno efficace dalla mancata condivisione di quelle stesse esperienze. Questo nuovo punto di vista ha assunto un colore ancora diverso quando, quasi un anno fa, ho deciso di attraversare l’oceano per iniziare un’altra fase della mia vita negli Stati Uniti, ad Atlanta. Come è facile immaginare, le distanze – non solo fisiche – sono grandi. La scelta di una città del sud-est, con un clima più mite, persone generalmente cortesi e disponibili, e ritmi sicuramente più a misura d’uomo (Sardo) rispetto a Chicago o a New York, ha reso lo shock culturale più morbido. Le mie motivazioni, legate principalmente ad un ulteriore desiderio di crescita professionale, hanno per ora trovato accoglienza positiva in un sistema sicuramente imperfetto, ma nettamente più dinamico e meritocratico rispetto sia alla Sardegna che all’Italia in generale, un sistema in cui generalmente le capacità e l’impegno vengono più correttamente valutati dalle università e dal mercato del lavoro. Ciò premesso, può un Sardo vivere bene in USA e – nel mio caso – ad Atlanta? Credo di sì, se ha in sé le giuste motivazioni e se trova le opportunità per realizzarsi. Si tratta, però, di un importante compromesso. Dato che ogni scelta comporta dei vantaggi e delle rinunce, per non trovarsi in difficoltà e non pentirsi dei propri passi bisogna conoscere con sufficiente approssimazione quale sia la portata di queste rinunce. Ancora più importante, penso che si debbano vedere queste rinunce nel lungo termine. Più o meno tutti siamo in grado di fare temporaneamente a meno, per fare alcuni esempi, del buono e sano cibo mediterraneo, del bel mare a due passi, di una copertura del sistema sanitario nazionale che qui si può solo sognare, della ridotta dipendenza dall’automobile a vantaggio dei mezzi pubblici (quando si voglia!), della gamma di espressione dell’Italiano e del Sardo a cui neanche un’ottima confidenza con l’Inglese Americano potrà mai sopperire, della possibilità di passare un po’ di tempo con le persone care con sufficiente frequenza. Si tratta di un prezzo non indifferente che per ora pago volentieri per raggiungere i miei obiettivi, ma la Sardegna per me resta un punto fermo: una sorta di potenziale Paradiso, incompiuto e reso aborto da un sistema miope ed egoista, ma ciononostante per alcuni aspetti modello di bellezza e qualità della vita ineguagliabile. Per questo, so che un giorno – forse tra molti anni e ulteriori deviazioni – tornerò.