di Emiliano Deiana *
Sono Salvatore Usala, malato di SLA, con tracheostomia e PEG, vivo a Monserrato, vicino Cagliari. Così si presenta Salvatore Usala in una lettera indirizzata a Papa Francesco. Non cerca giri di parole, Salvatore, va dritto alla sostanza del problema, del suo problema e del problema di migliaia che condividono con lui la malattia e delle famiglie, di tutte le loro famiglie, che sono abbandonate dalle istituzioni regionali e nazionali. Il prossimo 22 ottobre Salvatore Usala sarà a Roma, insieme ai suoi compagni, a protestare davanti al Ministero del (Sotto)Sviluppo Economico. Lo farà nell’unico modo possibile: mettendo a repentaglio quello che ha, la sua vita. Inizierà, ancora una volta, un drammatico sciopero della fame per sollecitare Governo e Parlamento ad intraprendere azioni concrete per venire incontro non a un privilegio – come tanti ne vengono tutelati in quelle sedi – ma un diritto: il diritto alla salute, il diritto all’assistenza, il diritto ad una vita dignitosa, anche nella sfortuna della malattia; in quella condizione dolorosa nella quale il corpo non risponde più, non rispondono più i muscoli; resta solo la lucentezza dello sguardo che disegna parole attraverso una lavagnetta; e un’intelligenza viva, un’ironia feroce, un attaccamento alla vita che dovrebbe far vergognare tutti coloro che, potendo, non fanno: fermi nell’inerzia del chiacchiericcio politico, della tattica fine a se stessa, della propria, personale, sopravvivenza nella politica e nelle istituzioni. Ma in troppi (non tutti, per carità!, ma troppi: davvero!) in quelle sale dai corridoi ovattati dalle moquette non sentono il riecheggiare delle carrozzine dei malati e poiché non li sentono non gli assale né rimorso né vergogna. Quando uno Stato non funziona l’ultima speranza sono gli uomini in odore di santità: e per questo che Salvatore Usala ha scritto a Papa Francesco. Come ultimo, estremo tentativo di riaccendere i riflettori sulla loro condizione disperata, sul loro triste, tristissimo, abbandono da parte delle istituzioni. Ma Usala, attraverso la lettera al Papa, non protesta soltanto; fa quello che non ti aspetteresti mai: propone, inascoltato, soluzioni che aiuterebbero a spendere meglio le risorse a favore dei disabili, a tagliare sprechi ed inefficienze. E questo, forse, in un mondo politico che ha sempre la ricetta giusta per tutto, un mondo politico che confonde cura con malattia, diagnosi con prognosi, questo deve essere inaccettabile. Come si permette di dirci come fare? A noi che siamo nel banchetto del FMI, alla Banca Mondiale, a Wall Street? Io c’ero. C’ero a Cagliari, plaudente, quando Pierluigi Bersani, candidato Premier nell’ultima, suicida, campagna elettorale, diceva: “non lasceremo solo Salvatore Usala”. Io c’ero, al Teatro Massimo; ed ho sentito quelle parole. E non le dimentico. Oggi, al Ministero, c’è con la carica di Viceministro uno dei Bersani Boy’s: Stefano Fassina. Ad oggi, con uno sguardo rivolto al mito del 3%, al Pil, all’equilibrio, al pareggio di bilancio di risolvere la situazione di Usala e di migliaia e migliaia in quella condizione non se ne è nemmeno parlato: era prioritaria l’abolizione dell’Imu, l’aumento dell’Iva per placare, la fame indemoniata, dei berluscones che del diritto alla salute e all’assistenza, prosaicamente, se ne fregano. Voglio vedere cosa faranno i Bersani Boy’s da qui al 22 ottobre. Perché questo è il termine ultimo che hanno deputati e senatori per porre fine ad una vergogna nazionale. Una vergogna che abbandona uomini e donne, famiglie; una vergogna che distrugge la dignità delle persone e che causa un decadimento morale per tutta la comunità nazionale. Salvatore Usala, in questa battaglia, non sarò solo. non può e non deve essere lasciato solo. Prima del Papa – lo dico con rispetto profondo e con la consapevolezza che un suo intervento farebbe vergognare per davvero i governanti, come lui li chiama – dobbiamo esserci tutti noi, perché la malattia è un attimo, perché la malattia può sempre entrare in ciascuna delle nostre case senza che ce lo aspettiamo minimamente ed allora quella battaglia deve essere la battaglia di tutti, una battaglia di civiltà che interroga, oggi più di ieri, le nostre coscienze assonnate, il nostro ruolo collettivo nelle comunità, la nostra parola quando solo quella ci rimane.
Come quelle, definitive, di Salvatore quando dice: “Verrò dalla Sardegna con viaggio di sola andata, dal 22 ottobre sarò in sciopero della fame totale, dal 24 non assumerò più liquidi, è la mia sfida all’ipocrisia del denaro, davanti al palazzo del potere. Rischio la morte celermente, sono fragile come un bambino, la vita in un corpo inerme, ma non ho paura di morire. Sarò la vittima sacrificale in uno stato indegno di essere chiamato civile”. Che la vergogna e il rimorso li colgano leggendo queste parole, e provvedano a correggere con leggi degne di un Paese civile.
* cagliari.globalist.it