di Omar Onnis
Noi sardi ci conosciamo poco, sicuramente meno di quanto crediamo. Preferiamo affidarci ai luoghi comuni e non darcene troppo pensiero. In particolare non conosciamo la Sardegna, abbiamo un’idea estremamente semplificata e direi turistica (per parafrasare Marcello Fois) della nostra terra e di tutto ciò che la riguarda. Su questo il sistema di potere vigente (vigente da duecento anni) ha costruito le sue fortune. E’ inevitabile che, sulla base di tale diffusa ignoranza, alimentata per altro da un tasso di scolarizzazione piuttosto basso e da un’esposizione compulsiva ai mass media italiani, anche le scempiaggini più improbabili riescano ad essere credibilmente spacciate per dati di fatto. L’impudenza con cui la nostra classe politica ha così a lungo turlupinato i sardi, facendo loro credere l’incredibile, è il frutto marcio e avvelenato di questa condizione penosa.
Così ancora oggi è possibile sentire un sindaco sardo perorare la causa delle trivellazioni della SARAS ad Arborea, incurante di tutto quello che è emerso in questi mesi, grazie alla mobilitazione della popolazione (è successo solo due giorni fa, ad Oristano). O leggere sui giornali dichiarazioni, al limite della menzogna sfacciata, di politici con grandi responsabilità di governo (questo accade spesso). La complicità dei mass media principali e di tutto l’apparato di costruzione del consenso e dell’immaginario collettivo ha la sua parte, in tale operazione, è evidente.
Tuttavia, si notano ormai delle crepe nella fortezza apparentemente inscalfibile del sistema di dominio sardo. In qualche modo, i cittadini accettano meno passivamente ciò che viene loro propinato come verità ufficiale. Spesso questo atteggiamento sfocia in una forma di credulità non meno pericolosa della precedente, lasciando spazio a tesi avventurose e comunque non sempre limpide nei loro obiettivi politici (la faccenda del signoraggio, le scie chimiche, il complottismo ufologico, ecc.). Non di rado, chi presta fede a tali tesi non ha idea di quale ne sia la radice, per lo più impresentabile (nazionalista e/o peggio, di solito). Insomma, non è detto che la sfiducia nella narrazione mainstream porti direttamente a un aumento della consapevolezza. Il processo non è automatico e a un’unica direzione possibile. La storia ce lo ha mostrato varie volte.
In ogni caso, è un fatto che oggi come oggi, in Sardegna si stiano creando le condizioni per un mutamento dei paradigmi consolidati. Il problema dunque è: come affrontare la voglia di cambiamento e la voglia di giustizia anche spicciola delle grandi masse popolari? La deresponsabilizzazione a cui sono state abituate non giova. Serve un forte senso di appartenenza alla propria collettività da parte di chi ha influenza sull’opinione pubblica, o anche solo nella propria cerchia di relazioni. Serve una mobilitazione dal basso dei cittadini, delle forze sociali, dei centri di interesse, che non risponda più alla logica del tornaconto immediato, privato o di categoria, ma che faccia propria una visione partecipativa, specie riguardo beni comuni e infungibili, materiali e immateriali (territorio, ambiente, infrastrutture, capacità di spostamento, patrimonio storico-culturale, istruzione, salute, ecc.). Non più l’applicazione dall’alto di modelli astratti e spesso estranei al territorio, ma l’assunzione delle scelte strategiche in base al principio della partecipazione attiva e dell’interesse generale e diffuso.
In un contesto simile, le scelte politiche si polarizzano. Ci si deve schierare, occorre essere partigiani, come diceva Gramsci. Ma non più dentro lo schema usurato e mortifero della politica italiana in Sardegna, della politica post-coloniale che ci ha condotto a una deriva pericolosissima come quella attuale. Bensì, rompendo lo schema. Non più centrodestra e centrosinistra, non più appartenenze di comodo a centri di potere che poi rispondono a logiche di dipendenza e subalternità, o a dinamiche di clientelismo e corruzione sistematica. Questo apparato di dominio è unico e anche piuttosto compatto, a dispetto delle apparenze. Basta verificare l’azione puntuale delle forze politiche presenti nell’attuale consiglio regionale per evincerne la sostanziale complicità, anche laddove facciano finta di scontrarsi. Una complicità che non ha alcun interesse a modificare la nostra situazione mortificante. Anche la vacua retorica identitaria o la cooptazione nelle loro file di elementi presuntamente votati a una prospettiva indipendentista è una mera azione manipolatoria (si veda l’invenzione orwelliana del sovranismo, ossia dell’autonomismo malamente riverniciato). A tutto ciò bisogna opporre una proposta realmente alternativa, in nome della nostra emancipazione materiale, morale e politica. La scelta è questa ed è chiara. Mai come in questo momento le cose sono state così evidenti. Nessuno può chiamarsene fuori. Saremo giudicati per quel che faremo e per come lo faremo, e anche dalla scelta dei compagni di viaggio, senza nemmeno la facile scusa – spesso accampata dai protagonisti della politica sarda dell’ultimo settantennio – della buona fede, delle buone ragioni. Le buone ragioni devono sposarsi alla buona politica e la buona politica è quella che intende spezzare le catene, non semplicemente ridipingerle per non farcele più vedere, ed è quella che renderà le nostre vite più dignitose, più fertili e ricche, e consegnerà ai nostri figli una Sardegna migliore di come l’abbiamo trovata noi.
Per continuare a parafrasare Marcello Fois, “in Sardegna non c’è il mare…”