di Sergio Portas
I bimbi nascono e vengono su giusto per “treulare” le loro mamme e i loro babbi, che appena hanno sentore di come vanno le cose del mondo, subito lo scoprono strano e sorretto da regole talmente assurde che non vedono l’ora di diventare “grandi” per poterle tutte rivoltare come un calzino. Simone Contu, col suo film “Treulababbu”, ce ne fa racconto mettendo la macchina da presa dietro i loro occhi spalancati, usando le campagne dell’ Ogliastra e i monti di Jerzu a scenario di due storie che vanno ad intrecciarsi solo nel finale quando Efisio, il primo dei due protagonisti, uno che ha a compagno di giochi e di sogni tale conca niedda (testa nera), capretta orfana di madre che ciuccia latte dal biberon e si mangia le rose della vicina di casa, inopinatamente spunta nella scena di Vincenzo incapace di spiegare dove abbia mai raccattato il bianco cavallo che va montando all’entrata da scuola (me l’ha dato il diavolo). Nel primo dei due episodi in cui il film si dipana il babbo di Efisio proprio non ce la fa a spiegare al suo bimbo che in Sardegna usa mangiare agnelli e capretti, da che i nuraghi hanno fatto ombra al sole d’aprile. Anzi per diventare “uomini balenti” proprio questo si deve saper accettare. Lui che alle tradizioni ci tiene, tanto che insegna il sardo ai suoi alunni a scuola. Pure Efisio parla sardo e bene anche, e da grande forse vorrebbe fare il pastore, tanto che gioca coi suoi compagni di scuola usandoli a mò di agnellini al pascolo, fischiando come solo sanno fare i pastori quando vogliono muovere la mandria. A capretto sgozzato e scoperto nel freezer, inutili sono i tentativi di scurire capre dalla testa candida con la tintura che usano le donne (e anche i maschi in verità) alla scoperta dei primi capelli bianchi. Conca niedda rispondeva belando ai richiami del suo pastore. Questa no. E mentire ai propri figli, naturalmente per il loro bene, è da sempre una pessima scelta se si vogliono mantenere aperti i canali di comunicazione. Tutti i babbi lo sanno e tutti i babbi lo fanno. Ed è bravo Contu a descrivere lo straniamento di questo babbo “progressista” che non riesce a districarsi dalla contraddizione delle “regole” che “vano sempre rispettate”, salvo poi farsi sorprendere alla guida senza cintura né patente da due poliziotti incapaci di capire che trecento euro di multa, per lo stipendio di un maestro elementare, sono un’enormità, che ti fa persino bestemmiare in sardo. E il diavolo così evocato s’incarna nella storia di Vicente che ritorna coi suoi al paese di nonno, quello che ti raccontava in sardo le storie dei fantasmi e dei morti che ritornano, a luna piena. E meno male che in questo modo ti ha insegnato a parlare la lingua del posto, così da rispondere per le rime a una torma di monelli che subito vorrebbero dare una lezione a “questo continentale”. Che per farsi accettare dalla marmaglia che gira per le campagne con un somarello di altri padroni, promette loro che per il primo giorno di scuola lo vedranno venire con un destriero di più nobili origini. In questo “conto” sogno e realtà si fondono senza che vi sia barriera a separarli, con esiti fin stranianti intessuto com’è di presenze che hanno fatto parte dell’immaginario sardo per centinaia di anni fino a diventare altrettanto reali che lo scorrere delle stagioni. E ci sono due fratelli nanerottoli dalle improbabili orecchie che parlano in buffe rime baciate, in sardo, il diavolo padrone dell’asino trafugatoli dalle anime di bimbi morti, capace di evacuazioni in oro zecchino. Nonché carovane di carri circensi a carretta dei quali singolari figure di cocchieri ti rimandano a regine, che si intuiscono amanti di banchetti luculliani, che “per farti continuare a vivere” ti sottopongono a indovinelli di arguzia contadina. Anche qui per diventare “balente” ti tocca sfidare la notte, illuminata da una una luna così grande che Astolfo, per ricercarvi il senno perduto di Orlando, non avrebbe neanche avuto bisogno d’Ippogrifo, gli sarebbe bastato fare un balzo tanto sembra vicina. Lo porterà a Oramala il ciuco dalle cacche d’oro e ne avrà in cambio un bianco puledro il nostro Vincenzo, capace di resistere a vecchie nerovestite dalle mani adunche, a bimbe dai visi diafani coperti di fango, ai racconti dei morti che tornerebbero a tormentarti solo che i lumini davanti alla loro foto smettessero di fare luce tremolante, come racconta tzia Antonia, cuoca di minestre altrimenti immangiabili. E mamma, forse, di quei due nanerottoli che imperversano coi loro mezzi di locomozione che neanche Archimede pitagorico avrebbe osato pensare. Una Sardegna che vuole portare nella contemporaneità la sua lingua e le sue tradizioni con un tocco di soavità e di gioco. Che è quello che i bimbi sanno fare per antica saggezza di sognatori d’impossibile. E questi sono bimbi sardi, che maneggiano il materiale onirico immagazzinato dalle favole che hanno loro raccontato nonni e parenti. E quindi anche il diavolo, perché no, e i folletti che ti aiutano a vincere le paure più grandi, a superare le delusioni più atroci, di quei babbi che non ti dicono la verità perché hanno smarrito la magia di giocare con i sogni.