di Maria Letizia Pruna *
L’Italia ha imboccato da molto tempo una strada senza uscita, che ci ha allontanato dall’Europa e che rende più difficile venire fuori da questa lunga crisi. Si può perfino dire che in Italia questa crisi ha trovato un contesto economico e sociale ben più fragile rispetto ad altri, da molti punti di vista, sul quale gli effetti della crisi sono stati particolarmente devastanti. Ma di tutto ciò che è successo nel mercato del lavoro, e che i dati descrivono con chiarezza, non c’è nulla che corrisponda a ciò che raccontano i giornali, la televisione e la politica. E’ quanto emerge dal Rapporto 2012 sul mercato del lavoro in Sardegna, realizzato dal Centro Studi di Relazioni Industriali dell’Università di Cagliari con il contributo della Fondazione Banco di Sardegna, e presentato nei giorni scorsi. Il volume è pubblicato dall’editrice Cuec. Il filo conduttore dell’analisi di quest’anno è il confronto con l’Europa, con i 27 paesi e con le 270 regioni dell’Unione Europea. E’ proprio da questo confronto che emerge l’allontanamento dell’Italia (e della Sardegna) dall’Europa. Il primo e fondamentale problema è la debolezza dell’occupazione. Non se ne parla, eppure non si tratta semplicemente del lavoro perduto con la crisi ma di quello che non c’è mai stato e di ciò che il lavoro è diventato in questo Paese e in questa Regione. I dati parlano chiaro e descrivono una situazione molto grave, sintetizzabile in una serie di elementi di debolezza della base occupazionale su cui poggia il funzionamento del sistema-Paese e del sistema-Regione. L’occupazione è debole perché è poca e non è mai cresciuta abbastanza, tant’è che rispetto ad altri paesi europei con le stesse dimensioni demografiche abbiamo milioni di occupati in meno e questo accadeva anche prima della crisi; ciò significa che solo una parte della popolazione adulta ha un lavoro e un reddito (e avrà una pensione), mentre l’altra è costretta a restare senza lavoro e senza reddito e si sostiene attraverso le solidarietà familiari e i trasferimenti pubblici (assistenza, pensioni, ammortizzatori sociali), che non sono generosi ma sono distribuiti tra un ampio numero di famiglie. Chi non ha un nonno o un padre in pensione? Sono loro che reggono molte famiglie, in cui c’è poco lavoro e poco reddito. Se le solidarietà familiari reggono, le risorse e le opportunità degli individui diventano sempre più scarse e diseguali. L’occupazione è debole perché contiene poca istruzione e dove c’è poca istruzione l’occupazione è povera di contenuti professionali, di competenze, di innovazione, di valore aggiunto. Il confronto è perdente con quasi tutti i paesi europei, non solo con i più avanzati: in Italia e in Sardegna non soltanto c’è una quota risibile di laureati ma perfino pochi diplomati; la licenza media, come si sa, è ancora il titolo prevalente. Il deficit di istruzione è talmente radicato da essersi ormai impresso nella struttura professionale del Paese e della Regione, in cui le occupazioni ad alta professionalità e le professioni tecniche specializzate non si sono mai sviluppate abbastanza e negli ultimi anni si sono ulteriormente ridotte, mentre abbondano e crescono le professioni impiegatizie esecutive e le occupazioni poco qualificate. E’ il contrario di quanto è avvenuto negli altri paesi: anche quelli più duramente colpiti dalla crisi, quali Spagna e Irlanda, sono riusciti ad incrementare l’occupazione più preziosa, quella con un alto contenuto professionale, e in subordine a salvaguardare le professioni tecniche specializzate. L’occupazione è debole perché è sempre più instabile e precaria. Negli altri paesi europei il lavoro a termine è aggiuntivo rispetto ad un lavoro stabile molto esteso, rappresenta una opportunità transitoria offerta a persone che sarebbero disoccupate o inattive. Da noi, invece, il lavoro precario non solo ha bloccato la crescita dell’occupazione stabile ma ne ha perfino eroso la dimensione, sostituendo milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato con una variegata combinazione di contratti parasubordinati; così la precarietà è diventata la condizione ordinaria di vita di una parte ampia e crescente della popolazione. Nel dibattito politico la precarietà sembra sparita, mentre le imprese chiedono più flessibilità e il ministro del lavoro congela qualsiasi revisione della riforma Fornero, pur essendo evidente che la flessibilità non ha aumentato l’occupazione ma l’ha sostituita con una occupazione peggiore, rivelandosi – come ci si doveva attendere – un pessimo e inefficace surrogato delle politiche di sviluppo. Piuttosto un ottimo indicatore di sottosviluppo.
L’occupazione è debole perché esclude giovani e donne, privando il sistema economico delle risorse più dinamiche e istruite. Le enormi differenze nei livelli di occupazione tra l’Italia e gli altri paesi europei sono determinate in larghissima parte dal divario di genere e generazionale che connota e penalizza l’Italia: ci sono pochissimi giovani nel mercato del lavoro e ancora poche donne. Per giunta, non c’è compensazione di alcun genere a questa esclusione massiccia dei giovani dal mercato del lavoro: il ritardo italiano dei giovani nell’accesso al lavoro non è spiegato da una più prolungata carriera scolastica e da livelli di istruzione più elevati, né da altre esperienze formative qualificanti. I dati mostrano, al contrario, che in Italia e in Sardegna i giovani hanno un livello di istruzione più basso rispetto a molti altri paesi. Questa è la sfida più importante per l’Italia: tenere i giovani a scuola fino al diploma, perché in tutta l’Europa è questo il livello minimo di istruzione ritenuto necessario per affrontare meglio il mercato del lavoro e la vita. Non a caso, già da qualche anno, nelle statistiche europee la soglia anagrafica che segna l’ingresso nel mercato del lavoro è stata spostata da 15 a 20 anni, come dire che fino a 20 anni è meglio studiare. I giovani in Europa sono le persone tra i 15 e i 24 anni. A 25 anni si è adulti. Può non piacerci, ma la dilatazione della giovinezza è uno dei tratti patologici del nostro Paese. La disoccupazione giovanile di cui si parla in questi giorni riguarda dunque questa fascia di età. Nessuno lo dice ma in Italia e in Sardegna il 77% della disoccupazione è adulta (sopra i 25 anni) e il 23% è giovanile. Anche la disoccupazione non rilevata, quella di chi cerca un lavoro con minore intensità ma esprime lo stesso il bisogno di averlo, è largamente adulta e così anche la precarietà, che del resto è l’altra faccia della disoccupazione: quasi l’80% dell’occupazione precaria in Italia è adulta, in Sardegna supera l’83%. Questo non migliora affatto le condizioni e le prospettive dei giovani, semmai le peggiora pesantemente, almeno da due punti di vista: l’insicurezza economica degli adulti e delle famiglie comincia a danneggiare le possibilità dei figli di continuare a studiare e di avere buone condizioni di vita; i giovani dovranno affrontare a loro volta un lungo tratto di vita adulta intessuta di disoccupazione e precarietà, in una spirale assurda di impoverimento. La priorità assoluta è creare molta occupazione di qualità. Niente stage o altri inganni per i giovani ma occupazione vera per tutti, e restituire dignità e tutele al lavoro.
* Sardinia Post