di Sergio Portas
Se un coro che si autodefinisce meticcio, anche se il nome che si è dato: ”Sa Oghe de su Coro” lo inchioda inesorabilmente alla madre Sardegna, va a “toppare” proprio quando canta in occasione de “Sa Die de sa Sardigna”, conviene che si scavi una fossa profonda, metaforicamente parlando, e tutto vi si inabissi acciocché il suo ricordo vada a stemperarsi nei secoli futuri. Quindi mentre a Pavia era in corso uno di quei pranzi sardi che fanno la gioia dei commercianti di vestimenti “extra large”, ancora con in bocca il sapore della pecora bollita, e ci sarebbe voluto un cannonau per buttarla giù non certo il barbera dell’Oltrepò, il nostro maestro Pino Martini Obinu ci ha richiamati all’ordine e siamo andati a provare l’acustica del teatro. Undici voci femminili e dieci maschili, contando insieme a noi (i maschi) anche Pino che dirige, suona e canta pure, non so bene con che tono. Che quando uno è dentro in quella specie di nuvola sonora che è l’emissione di diverse voci che si intrecciano, si sovrappongono, cercano un’amalgama, sino ad emettere una sinfonia del tutto particolare, singolare e identitaria della squadra che si va esibendo, dell’effetto complessivo non ha un’idea definita. Per sentire bene occorre essere seduti in platea e deve essere ben calibrato il sistema di amplificazione e dei microfoni. Non deve succedere come a Pavia, ma il concerto non era ancora iniziato per fortuna, che da uno dei microfoni, in maniera del tutto autonoma e inattesa, si senta improvvisamente il salmodiare di una messa. Va bene che si era ospiti dei salesiani, ma l’effetto straniante è stato il medesimo che mi assale talvolta al mattino quando, accendendo radio Popolare per sentire il notiziario e per effetto delle frequenze di trasmissione che sono molto vicine l’un l’altra, dal mio apparecchio sgorga prepotente il rosario di radio Maria. E tocca dire che se i sardi sono bravi a mettere su dibattiti e relazioni (anche in limba) su identità e storia isolana (e l’hanno fatto anche a Pavia, vedi i resoconti che ne ha fatto Paolo Pulina), sono bravi a mettere in piedi banchetti luculliani che aprono con antipasti misti e chiudono con filu ‘e ferru e mirto, con in mezzo due primi e due secondi e l’insalata e le patate e le seadas, per tacere dei vini, meno si preoccupano della fase squisitamente tecnica che deve presiedere all’esibizione canora di qualsiasi gruppo. Quasi che la macchina organizzativa raggiunga il suo climax con l’ammazzacaffè. E il resto debba seguire per inerzia. Il resto questa volta eravamo noi de “Sa Oghe” e quelli del gruppo Ichnos, che per lo più ballano ma anche hanno organetti e chitarre che vanno amplificate e quindi anche per loro il “sistema microfoni” è fondamentale che dia il meglio di sé. Che sinfonia di colori i costumi delle donne di “Ichnos”, che ricchezza di bottoni in filigrana d’oro e orecchini di corallo rosso. Le “ragazze del Coro” a loro confronto si stemperano in un frusciare di gonne nere, plissettate di raso e velluto cangiante, scarpe pure nere di vernice, e sul biancore delle camicie traforate di pizzi, finalmente dei corpetti traslucidi di raso colorato coi fiori ricamati a primavera, un paio di collane di corallo e d’ambra, Nadia ne intreccia una fatta da sè di stoffa azzurra col corallo rosso di casa sua, di sant’Antioco. I maschi sono tutti in nero e camicia bianca più o meno stirata (parlo per me), spiccano le scarpe in cuoio inglese di Ivan, gli altri rigorosamente nere, ma lui è la più bella voce del coro, il nostro centravanti dice Pino, nessuno ci farebbe caso neppure venisse a cantare scalzo. Quando attacca la canzone di Gavino de Lunas “Tempus passadu”, il suo “Ajò lassedemi istare pensamentos chi mi occhides” suona terso come rivolo di cascata che si butta in un lago di montagna. Chiaro che anche la “scaletta” proposta non ha nulla di casuale, oggi non può mancare “Procurad’e moderare” naturalmente, che un’esortazione ad “tornare coi piedi a terra” va rivolta ai baroni d’ogni tempo, non esclusivamente a quelli del 1794. Di “Miniera”, la cantano i tenores di Neoneli, la strofa che grido di più ( il ritornello la chiama galera che tiene chiusi i minatori come fossero malfattori) racconta dei “Sos promios organizzados/iscioperos sindacales/contra de sos prinzipales/in Buggerru los an fatos”. Era il 1904, ci vollero i morti dei minatori sardi perché l’Italia potesse vedere il primo sciopero generale nazionale della sua storia. Ma si cantano anche canzoni che dicono di amore, la fortuna più bella: che mi amassi quanto ti amo io (Assandira), canzoni che invitano a cercare la Sardegna in ogni dove, pensando invano di incontrane una altrettanto degna (Passu torrau cantau). Laire Lellaira. E “Libertade” che “est paraula manna”, le parole di M.Pio Leddae la musica di Pino, che ti accompagna dal tuo primo respiro. Perchè tu non sia mai solo, dappertutto è insieme a te. L’ascolti?/ Ti cerca/ Scrivila/ Donala/ Legala/Prendila e nascondila/Proteggila con cura/ Difendila/ Prendila e falla giocare/ Slegala/ Prendila e falla Ballare/Ricordala a tutti/ E affidala ad un mondo nuovo senza demoni e re.
bellissimi, Sa Oghe de Su Coro!!