di Claudia Sarritzu *
Martina Giangrande è un simbolo italiano: di solitudine, coraggio e dignità. Una donna e una giovane che deve trainare la carretta, nonostante tutto, nonostante la sfortuna che si è accanita sulla sua famiglia e sulla sua esistenza di 23enne invecchiata da una vita che non le ha risparmiato i dolori più grandi; pochi mesi fa una madre morta dopo una lunga malattia, oggi un padre carabiniere, che per caso, rischia di perdere l’uso dei 4 arti e restare paralizzato. Dico per caso perché nessuno merita di morire o essere ferito ma Giuseppe Giangrande lo merita meno di altri, è rimasto ferito mentre lavorava onestamente, per colpa di un disoccupato arrabbiato e cieco che ha scelto il gesto teatrale più stupido che si possa mettere in scena, prendersela con un cittadino che come lui vive nell’Italia peggiore degli ultimi 30 anni. Siamo in una guerra dove si spara al “Piero” di turno, che non conosci, che non ti ha fatto nulla, in nome di una frustrazione che non può giustificare il male che procura a chi ne resta vittima. Tre cittadini italiani che con le loro opere sembrano scrivere la parabola di una nazione che reagisce diversamente alla crisi. Martina a 23 il lavoro lo cerca per ben due volte e lo trova con fatica ma grazie alla costanza. Ed entrambe le volte lo deve lasciare, perché con quelli più forti con le spalle più robuste il destino si accanisce, “ognuno possiede le croci che può trasportare” che frase terribile con cui ci hanno cresciuti, un po’ religiosa un po’ scaramantica e pagana, una condanna a soffrire in silenzio. Prima si licenzia per assistere la madre; in Italia è così, se ti ammali non hai che i tuoi parenti per affrontare le cure, e se questi vivono del loro lavoro la malattia diventa anche povertà, perché non potranno conciliare assistenza a orari di lavoro e saranno costretti a scegliere fra il pane o l’amore. Oggi, ancora una volta, ha dovuto mollare la propria occupazione precaria per stare vicina al padre in ospedale. Un altro bivio, un’altra scelta spietata. Perché con alcuni la vita è sfacciata, li chiede sempre gesti eroici, li chiede sempre un coraggio che devono avere più degli altri a prescindere da quello che hanno già scontato. È come un neo il destino non lo puoi cancellare. Martina però non dispera, ci dà una lezione di speranza e di futuro che ci spezza, ci fa sentire piccoli e stupidi. Ci colpisce quando ripete “Continuo a sperare in un mondo migliore“, nonostante sia italiana, nonostante sia donna, nonostante sia giovane. Le chiedono di perdonare, come se non fosse abbastanza questa vita per una cittadina nata nel 1990. “Non so, non credo potrò perdonare. Adesso devo pensare a me, tra i due chi ha perso sono stata io“. Ha ragione, tocca dirlo a lei, al microfono, che la vittima di questo scempio è Lei, non l’altro, il carnefice in giacca e cravatta, quello a cui tutti stanno trovando attenuanti in queste ore. Quello che ancora una volta le ha tolto un futuro tanto sognato.
* cagliari.globalist.it