di Sergio Portas
Se mi trovate una foto di Giovanni Canu in cui sorrida, cosa che ritengo assolutamente impossibile, ma solo lo veda accennare un increspare di labbra che possa assomigliare ad un sorriso, ebbene vi pago un bicchiere di cannonau, rigorosamente di Mamoiada, che lui viene da lì. Scultore, ma veramente artista a tutto tondo, a Milano da una vita. Visto che oggi, alla Mondadori di via Marghera, dove espone alcune opere “mignon” che non sono altro che idee da svilupparsi “in grande” come sa fare lui, ne fanno una biografia la più sintetica, che se davvero si decidesse di disquisire della vita e dell’opera di Giovanni, tireremmo le ore piccole, così ve la riporto. Intanto tocca dire che è del ’43, che cinquant’anni fa era a Nuoro con Raffaello Marchi che lo “adottò” e lo immerse nel meglio della cultura sarda del tempo, i Nivola, i Sassu i Lussu, che Marchi , antropologo di vaglia, era anche lui artista poliedrico e di tutto si interessava e scriveva. Poi a Torino e a Brera, a vent’anni e poco più. Lasciando alle spalle un inizio di opere pittoriche che avevano avuto buona accoglienza di pubblico e critica. L’incontro con un materiale che lo avrebbe intrigato per anni, il cemento armato, e poi graniti, e ceramica, argilla espansa, acrilici. E marmo e basalto. Un numero di mostre sterminato, con i siti che le ospitano (oggi è di moda il termine “location”, assolutamente orribile) i più disparati, e anche i più estesi, che le sue opere reggono la concorrenza delle quinte di un Castello Sforzesco nel ’98 ( ci sono le foto di Angelo Mereu a eterna testimonianza), o quello dei graniti rosa di Orosei. A Orani due anni fa, in un capannone industriale con macchine da costruzione che avrebbero fatto la felicità di un Polifemo, all’inaugurazione la tromba di Paolo Fresu ha usato le grandi sculture esposte per far rimbalzare quelle note alte che si sarebbero perse nel fulgore del monte Gonare. Assieme a lui, secondo padrino di un uomo che fa del duello con la materia la sua ragione di vita, Salvatore Niffoi che a Orani è nato e ha casa, gli scrive sul catalogo note di poesia pura, come sa fare solo lui. A Milano, quartiere Bonola, un suo manufatto si staglia ancora per dimensione e fattualità. Più pozzo sacro che utero materno, a mio avviso. Ma forse lui direbbe il contrario, visto che oggi qui tutti i discorsi vanno a finire sull’interiorità dell’arte e della visione psicoanalitica che se ne deve fare . Giovanni , che è di una semplicità assolutamente fanciullesca , confessa che spesso si trova a maneggiare la matrice che dà forma alle sue opere senza sapere bene quale sarà il lavoro finito che lui per primo vedrà, con la meraviglia del bimbo che senta i piedi improvvisamente bagnati dall’alta marea. Arte che guarda all’interno, coi fili di rame quasi fossero anima di ceramiche policrome e di marmi rigati da ossidi di ferro. Opere quindi che avranno istantaneamente una loro personalità, che attireranno sentimenti svariati, e sapranno loro quale angolazione di sguardi riusciranno a catturare. E Pasqualina De Riu, che si occupa principalmente di poesia, non si perita di trovarle inquietanti, sopratutto nella rappresentazione della femminilità. Che Giovanni Canu nell’iconografia massima di Mamoiada sia Mammuttone e non Issocadore non è nemmeno il caso di dirlo. Si fa fatica ad immaginarlo diversamente vestito dei suoi maglioni neri, gli eterni scarponi, mani che sono quelle di un minatore d’altri tempi, quando il minerale si rubava alla montagna a picconate. E in quelle gallerie dell’inconscio che sono paradossalmente ben più profonde dei pozzi di Montevecchio, la ricerca di Giovanni si è fatta sempre più pressante. Le domande “grandi” alla vita in quelle profondità umide si sono amplificate, con esiti che sono qui esposti, almeno in parte. Per meglio apprezzare la sua opera di ogni giorno occorrerebbe fare un salto in via Solferino, dove ha un atelier-laboratorio che, ogni volta ci cado dentro mi fa l’effetto della caverna di Alì Babà, tante sono le meraviglie accatastate alla rinfusa. E confesso che ogni volta ho la tentazione di Aladino, ladro che rubava a dei ladroni, di portarmene via almeno una, magari non due metri per due metri, per vedere se ne noterebbe la scomparsa. Ma suppongo che sì. E non me lo perdonerebbe, a Mamoiada comunque non lo farebbe mai. Qui in continente la sua fragilità, di cui i sardi hanno coscienza e timore tanto sono usi a indossare maschere lisce di pero selvatico che attenuano le rughe dei loro volti, è più manifesta, il dubbio che dovrebbe regnare sulla vita degli uomini si è fatto strada anche nella roccia della sua sardità. E se a mia discolpa gli andassi a dire che è stata la sua opera d’arte, misteriosa e splendida, a dirmi :”Rubami, rubami”, forse allora me lo vedrei sorridere.