A LIVORNO NEL 1991 MORIRONO 140 PERSONE DI CUI 30 SARDI: CASO "MOBY PRINCE", VERSO LA RIAPERTURA DELL'INCHIESTA


di Piero Mannironi *

La superperizia riapre la ferita. Perché dopo 22 anni porta una nuova luce nell’abisso di bugie, misteri e depistaggi nel quale si sono perse le 140 vite dei passeggeri e dell’equipaggio del Moby Prince. Ma soprattutto diventa un grimaldello per riaprire l’inchiesta sulla più grave tragedia della marineria italiana. Il traghetto salpò da Livorno la sera del 10 aprile 1991 per Olbia, ma, dopo solo poche miglia, finì contro una petroliera, la gigantesca Agip Abruzzo, incendiandosi. Ci fu solo un sopravvissuto, il mozzo napoletano Alessio Bertrand. La perizia, voluta dai figli del comandante Ugo Chessa ha oggi un effetto devastante. Prima di tutto perché scompone e ricompone in un ordine diverso alcune delle tessere più importanti del mosaico creato dalle inchieste giudiziarie. Mostrandone così i limiti e gli errori e incidendo profondamente sulle cause possibili del disastro e sui tempi spaventosamente lunghi e inutili dei soccorsi. Le ipotesi di reato finora formulate portano fatalmente nel vicolo cieco della prescrizione, ma ora la procura di Livorno potrà valutare anche una strada nuova: quella della strage, reato che il tempo non può estinguere. Il primo elemento nuovo proposto dalla perizia voluta a tutti i costi da Angelo e Luchino Chessa (i figli del comandante del Moby Prince) ed elaborata del team di esperti coordinato da Gabriele Bardazza, è quello del nome della misteriosa nave che si allontanò in tutta fretta dal teatro della tragedia. Quasi volesse sfuggire a una responsabilità diretta su quanto era accaduto.

Finora questo fantasma aveva un nome: Theresa. Perché così si era identificata in una comunicazione radio destinata a una misteriosa Ship One (Nave uno).

I fatti. Sono le 22,49, esattamente 35 minuti dopo l’impatto tra il Moby Prince e l’Agip Abruzzo. “This is Theresa, this is Theresa for the Ship One in Livorno anchorage, I’m moving out, I’m moving out!”. (Qui è Theresa, qui è Theresa per Ship One all’ancora a Livorno. Io sto andando via, io sto andando via).

Misteri. La procura di Livorno non riuscì mai (né nella prima né nella seconda inchiesta) a capire da dove venisse quella voce registrata sul canale 16 d’emergenza di Livorno Radio. E tantomeno riuscì a individuare “Theresa” e “Ship One”. L’unica certezza alla quale arrivarono i pm è che nessuna delle due navi era la “21 Oktobar II”, il peschereccio che faceva parte della flotta della società Shifco del discusso imprenditore somalo Omar Mugnbe. Su quel peschereccio indagava per un presunto traffico di armi e scorie radioattive la giornalista Ilaria Alpi, uccisa poi a Mogadiscio nel marzo 1994 insieme al cameramen Miran Hrovatin. La “21 Oktobar” quella notte maledetta era a Livorno, ma non avrebbe mai lasciato la banchina “Magnale”. Un minuto dopo , alle 22,50, ecco un’altra comunicazione sullo stesso canale radio. Questa volta la voce si identifica come “Gallant II” e chiama “american cargo vessel”. Cioè nave cargo americana. Che questa volta risponde. Dunque, la “Ship One” e la “american cargo vessel” sono la stessa cosa.

Orari. Alle 23,15, tra i caotici messaggi radio dei soccorritori, spunta una nuova comunicazione sul canale 16 d’emergenza: “Tank boat, I am Gallant2, please keep clear of me, I’m moving out!” (Petroliera, stammi lontana, sono il Gallant II, mi sto allontanando).

Il team di Bardazza ha analizzato le comunicazioni. E l’analisi grafica evidenzia, la presenza di un segnale vocale tra i 300 ed i 1500 Hertz che conferma che la voce è la stessa. Cioè, quasi sicuramente, quella del capitano del Gallant II/Theresa: il comandante greco Theodossiou. Per quale motivo Theodossiou ha utilizzato la prima volta un nome in codice per dire che si stava allontanando in tutta fretta? E poi: perché quella fuga precipitosa in quei momenti drammatici?

Usa. La “Gallant II” è una nave militarizzata americana che stava trasportando armi dall’Iraq alla base di Camp Darby: l’operazione “Desert storm” si era infatti conclusa qualche giorno prima. Il secondo importante elemento rilevato dalla perizia-Bardazza è la rotta del Moby Prince e la posizione della Agip Abruzzo. La perizia dimostra che la petroliera non era ancorata fuori dalla rada e che il traghetto ci è andato a sbattere sopra mentre cercava di rientrare nel porto di Livorno.

Analizzando le immagini video della sera con un sofisticato software, i tecnici sono arrivati alla conclusione che la Agip Abruzzo si trovava nel triangolo di mare interdetto per permettere il transito, in entrata e in uscita, delle imbarcazioni dal porto di Livorno. E che al momento dell’impatto era più sottocosta rispetto al traghetto che evidentemente cercava di rientrare in porto.

Enigmi svelati. C’è una comunicazione radio che certifica in modo inequivocabile che la dinamica dello scontro era proprio quella. Il comandante della petroliera, Renato Superina (nel frattempo deceduto) rivolto ai soccorritori, dice: «Stiamo suonando la sirena! Solo che non ci sentite perché abbiamo la prua a sud…».

Se la prua era dunque rivolta a sud e il Moby si è schiantato sul lato destro della Agip Abruzzo è del tutto evidente che il traghetto stava rientrando in porto.

Perché Ugo Chessa aveva ordinato quella virata a U e cercava di portare la nave in porto? Cosa aveva disturbato la navigazione, tanto da prendere una decisione così grave? Che ruolo ha in questa manovra la nave con le stellette Gallant2″?

Aiuti. E infine i tempi di sopravvivenza a bordo del Moby Prince che diventano il metro di misura dell’efficienza dei soccorsi. Pochi minuti per i consulenti della procura, molto di più per i familiari delle vittime. Il lavoro del team di Bardazza si è concentrato sulle impronte delle mani sulle carrozzerie carbonizzate dei veicoli nel garage del traghetto.

Versioni differenti. La procura livornese ha liquidato la circostanza dicendo che erano state lasciate dai soccorritori nelle ore successive all’incendio. Ma gli 007 ingaggiati da Luchino e Angelo Chessa hanno recuperato un video dei vigili del fuoco, girato durante il primo accesso a bordo. E in quei fotogrammi le impronte erano già ben visibili. Ciò dimostra che i passeggeri e l’equipaggio avevano tentato di trovare scampo a bordo delle auto. E i tempi della loro atroce agonia si dilatano così enormemente. Mentre nella rada regnava il caos.

* Nuova Sardegna

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