AMISTADE A VIGEVANO: STRAORDINARIA INIZIATIVA FOLKLORISTICA PROMOSSA DAL PROF. BIANCHINI IN COLLABORAZIONE CON IL CIRCOLO "S'EMIGRADU"


di Sergio Portas

 A sentire Alberico Guerzoni tocca mettersi l’animo in pace che i costumi sardi che si vedono qui a Vigevano, alla “Cavallerizza”, maestoso edificio con una struttura a capriate in legno, già maneggio  coperto per i cavalli del castello visconteo-sforzesco, sono tutti più o meno “falsi”. Anche il maneggio è falso, o meglio è venuto su solo nel 1837, mentre il castello è del periodo in cui e Visconti prima , gli Sforza dopo ( intorno al 1500), erano potenza politica che parlava alla pari coi re di Francia. Sentitamente quel Ludovico, detto il Moro, che proprio qui a Vigevano era nato e contribuì in modo determinante per l’edificazione di una delle piazze più belle d’Italia. Alla Cavallerizza pare di essere in uno di quei vicoli di Cagliari in attesa che parta la sfilata  il giorno di S. Efisio, un brillio di filigrane e di raso ad ogni incedere di donna in costume. Berritte nere sui capelli  che riescono ad essere ancora più oscuri, bottoni con granati su camicie candide a “zughittu”, eterna bottiglietta di birra Ichnusa che non estingue mai la sete identitaria che la stringe. Quando Alberigo ci dice che la Sardegna è la regione d’Europa più ricca per varietà d’abbigliamento popolare è vestito “da figo continentale”, con una cravatta verde in tinta con la camicia e la giacca, subito dopo però è altrettanto prestante con il gonnellino a pieghe d’orbace , i calzoni di tela bianca dentro le uose, il corpetto scarlatto. Tutto eredità del nonno di Ittiri. In realtà lui che è storico della moda per professione, fa un discorso ben più articolato: in cui entrano gli abiti da lutto e da mezzo lutto col colore nero che pare sia stato mutato dalla moda borghese continentale degli anni ’30, gli ultimi “muccadori” stampati e dipinti a mano dell’oristanese, il legittimo vezzo che le ragazze sarde d’oggi hanno di sfilare in costume con lo smalto policromo alle unghie. La moda è come la lingua, le parole che non si usano più sono sostituite dalle nuove, i nuovi colori scacciano i vecchi.  Sul palco si alternano ballerini diversi per abilità e coreografie,e certo i costumi specie i femminili fanno  la differenza: i nuovi alunni di “Domo Nostra” a cui Roberto Carrus in dieci lezioni fa danzare unu “ballu tundu” e il gruppo milanese di Ines Sau, Basamì  che Gonario Ultei col suo organetto scatena in “bell’e trese” e “passu torrau”. I primi con età media sopra i cinquanta, più numerosi e giovani i secondi, su diciassette che sono undici le ragazze. Prima che “Sos emigrantes” ci dessero una prima prova del loro cantare a tenores ( si esibiscono anche dopo), tutti vestiti in nero barbaricino, vellutini e cosinzos, c’è anche il tempo per tre poesie in italiano che recita Cassiano Abis. Quindi sono i padroni di casa ad occupare il palcoscenico, i Naramì di Angelo Bianchini e Roberto Carrus. Angelo è un infiltrato lecchese, a Milano da quando aveva cinque anni, infatuato di cultura sarda, diplomato in chitarra al conservatorio “G.Verdi”, specializzato in liuto rinascimentale e medievale. Etmomusicologo, insegnante di musica e diplomato in musicoterapia. L’idea “folle” di questa abbuffata di sardità è venuta a lui e gli va reso l’onore che merita. Roberto Carrus ha cominciato a ballare in tenera età  a Silì, che è come dire Oristano, diversamente mamma sua Giusta Lai lo avrebbe ripudiato senza possibilità di discussione. E da allora non ha mai smesso. Con un bicchiere pieno  di vernaccia poggiato sulla testa dà dimostrazione di quanto il ballerino maschio debba saper tenere un atteggiamento di assoluta impassibilità, nella parte superiore del busto. Per quanto riguarda i piedi e le gambe essi debbono frullare e incrociare punta e tacchi. Che la donna ha da essere conquistata dall’abilità più che dalla bellezza. Si alternano su “ballu e su muccadori”, un matrimonio sardo ricco di cuscini di raso, petali di fiori, launeddas e pippiolu, chitarre e canzoni a controcanto, il bouquet della sposa a mò di “pipia de majo” di un componidori  lanciato sul pubblico. Uno “Scottish” di Olbia, “Sa Danza”e unu “Passu Gabillu”. Una festa di colori che s’intrecciano, si sfiorano, si ricompongono a formare losanghe e stelle, con musiche che più che accompagnare ti spingono nel vortice: una festa manna. Dal palco, quando cantiamo noi de Sa Oghe de su Coro,Pino Martini Obinu che ci dirige al suono della chitarra , non riesco bene a capire cosa arrivi della nostre voci in quell’immensità che è la sala che ci ospita. Già casa di cavalli lipizzani, con le genti di Sardegna vestite a festa che pure ci battono le mani. La prossima volta, promesso, con un sistema di microfoni più puntuale e meno improvvisato. Poi è la volta di quelli di Ichnos con Gonario Ultei  a “berritta longa” e l’immancabile organetto che metterebbe le ali ai piedi persino alle sirene. Qui le sirene che danzano sul palco sono vestite di raso e hanno le trecce coperte da pizzi candidi finemente lavorati, come quelli che sfoggiano gli “Amedeo Nazzari” di Bareggio. Una festa tra sardi, che avrebbe ben meritato un pubblico più internazionale, magari con un maestro di cerimonia a mò di Virgilio dantesco, che andasse spiegando i vari gironi non dell’inferno e del paradiso sardo, coi diavoli che bevono birra e gli angeli in costumi di raso e di broccato.

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5 commenti

  1. Gavino Dobbo (Vigevano)

    Molto bello anche questo articolo, grazie per la pubblicazione; ciao Massimiliano…

  2. Cassiano Abis

    bellissimo ed esaustivo articolo. Complimenti Sergio Portas.

  3. Beatrice Spano (Cesano Boscone)

    Molto dettagliato l’articolo di Sergio Portas ,) il quale mi è parso di capire sia un componente del gruppo “Sa oghe de su coro”) molto preparato anche riguardo la storia di Vigevano e nella fattispecie sulla struttura sforzesca che ci ha ospitati. Riguardo i costumi sardi credo di poter dire che alcuni erano originali, ereditati da mamme e o da nonne, custoditi gelosamente nelle case delle città adottive lombarde pronti per essere indossati con orgoglio ogni volta che se ne presenta l’occasione. Altri sono frutto del rifacimento fedele di quelli originali, certo recenti, ma ugualmente preziosi per chi ha investito dei bei soldini per acquistare muncadoris de seda e brocati per i corsetti oltre a pizzi e trine. Alcuni, quelli delle “massaie” sono stati realizzati con stoffe meno pregiate, ma altrettanto graziosi. Questa non voleva comunque essere la festa dell’abito tradizionale/ costume sardo, bensi’ sa festa de S’Amistade, dell’amicizia appunto, dove tutti i gruppi hanno partecipato esibendosi senza competizione alcuna,gruppi costituiti da sardi emigrati in Lombardia e da alcuni loro amici, con la voglia di parlare di Sardegna e dimostrare quanto sia bella e varia la cultura popolare sarda e farla conoscere oltre mare. I numerosi gruppi (nove in tutti oltre l’oratore Cassiano Abis ) hanno dimostrato che son finiti i tempi del ” Pocos, locos y mal unidos” eravamo in tanti uniti in amicizia e per l’amicizia…. Un grazie a tutti i partecipanti ed in particolare ad Angelo Bianchini ( SARDO ONORARIO SUBITO….. ) 🙂
    Inoltre vorrei ricordare che tra i nove gruppi partecipanti si sono esibiti anche i GIU.AN.GA. di Davide Posadinu (originario di Nulvi) i quali ci hanno allietato con canti tradizionali in lingua sassarese e logudorese facendosi affiancare dalla straordinaria voce della soprano Cristina Diaz, arrivata dall’oltreoceano qualche anno fa e stabilitasi a Milano.

  4. Rossano Balestra

    Anch’io sono un adottato dal gruppo folk Ichnos, sono appasionato della musica in generale poichè è universale, ma in particolare anni 60, (sono emiliano), sinfonica concertistica e sarda. Nel gruppo folk interpreto su ballu barbaricino, su dillo, scottis eccc… E’ per me un grande piacere condividere la gioia di stare insieme, suonare ballare e perch no birra maialetto ecc. Carissimi saluti a tutti Rossano Balestra

  5. Paola Lanticina

    bell’articolo! però da quello che ho inteso io non si parlava di costumi falsi, bensì di come non esista un “costume sardo”, ma una moltitudine di fogge differenti che insieme costituiscono un più articolato patrimonio estetico.

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