Mi sono lungamente chiesta quale descrizione di sé avrebbe compiaciuto la scrittrice e la donna e ho trovato solo una parola: Sardegna. Grazia Deledda è Sardegna, quando la vive, quando la racconta, perfino quando la abbandona. “Talvolta mi avviene di pensare con commozione, che se io conto qualcosa nella letteratura italiana, lo devo tutto alla mia Isola santa. L’ho nel cuore, come si ha nel cuore la casa della madre e del padre”. Immediatamente dopo, l’autrice è i suoi romanzi: la sua identità si mescola con le parole e la si ritrova in ogni pagina, nei paesaggi, nelle vicende, nei personaggi, duri, taciturni e di carattere quando al femminile, in balia degli eventi quando al maschile. E lei stessa era femmina dura, taciturna e di carattere, inconsapevolmente moderna e determinata, tragicamente simile alla madre, infatuata fin da ragazza dell’idea di somigliare al padre. La donna desiderò intensamente una cosa solamente durante tutta la sua vita: di scrivere, e scrisse fino agli ultimi giorni di quella vita. “Se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti. Se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora. Se va per la terza volta, lascialo in pace perché è poeta. Senza vanità anche a me è capitato cosi.” D’altronde le carte in regola per diventare una buona scrittrice Grazia Deledda ce le aveva tutte, eccezion fatta per il piccolo dettaglio d’essere donna, e le donne per bene della Nuoro di inizio novecento facevano ben altro che scrivere. Grazia è l’eccezione: nasce figlia di una famiglia agiata, definita da lei stessa un po’ paesana e un po’ borghese, e di levatura culturale da non sottovalutare. Giovanni Antonio Deledda è proprietario di diverse tancas, ma è anche imprenditore visionario, e in un ambiente di illetterati, sa leggere e scrivere e produce versi in sardo che pubblica a proprie spese. Retto, saggio, colto, tutti lo stimavano e Grazia fin dalla sua più giovanissima età ne fa modello. Ma il carattere forte, severo e schivo la scrittrice lo eredita dalla madre, Francesca Cambosu, perfetta padrona di casa e buona moglie, forse non innamorata del marito (come la Deledda suppone nel suo autobiografico “Cosima”), che pure mai tradisce, forse per totale mancanza di occasioni. C’è la nonna poi, una presenza quasi divina, simile alle piccole fate sarde, buone o cattive a seconda delle circostanze. E’ l’anello di congiunzione fra lei e le altre donne, è icona del passato e dell’origine, ma è anche certezza del futuro e della continuità. Anche i suoi due fratelli, Santus e Andrea hanno un ruolo importante nella vita della giovanissima Grazia. L’uno studente universitario di medicina è vittima dell’alcolismo e si rovina, l’altro amante della vita all’aria aperta tenta di gestire il patrimonio di famiglia, ma non di rado si immischia in faccende al limite della legalità. Andrea soprattutto farà conoscere alla giovane Grazia il sapore agreste dell’isola durante le brevi fughe a cavallo che la ragazza attendeva come un bel regalo: è così che conosce i personaggi, i paesaggi, le erbe, le stagioni sarde. Negli anni a seguire molte di quelle fughe segrete prenderanno forma di preziosi racconti e romanzi. La caduta in disgrazia dei Deledda va di pari passo con i grandi drammi della famiglia: muore il padre, muore la nonna, muore la piccola Giovanna ed anche Enza, sposa giovanissima a causa di un aborto spontaneo. E’ Grazia che la ritrova nel suo letto, in un bagno di sangue, che la lava, la veste e la prepara per l’ultimo viaggio. E’ il primo incontro che la giovane scrittrice fa con Signora Morte. Non ultima disgrazia familiare era la passione di Grazia per la scrittura, la più preoccupante.
Grazia la giovane
La vita nuorese, spesso descritta dalla stessa scrittrice come votata al patriarcato, era piuttosto mossa delle donne e le donne si oppongono vigorosamente al suo desiderio di scrivere: lo fanno per prime le due zie, la madre, e anche le compaesane. Grazia, non è un caso, si sente diversa dalle donne sue coetanee, e lo chiarisce più d’una volta, facendo di questa diversità la colpa della sua infelicità amorosa. E diversissima dalle sue coetanee, la giovanissima Grazia fin da ragazza decide di non aspettarsi nulla dal mondo degli uomini: i tre esempi familiari devono averla delusa. Il padre muore lasciando le cinque donne Deledda nelle mani di due giovani privi di capacità: Santus si da all’alcolismo, Andrea alla vita licenziosa e ai margini della legalità. Le donne si stringono fra loro, riscoprendo una certa melanconica complicità e mandano avanti la famiglia, gli uomini si lasciano trasportare dagli eventi come foglie mosse dal vento. Diversa dalle altre ragazze dunque, tant’è che si guadagna, e qui si intravede il carattere deciso della donna che sarà, il diritto di seguire a lezioni private. Fu una delle sue prime vittorie. Non furono tanto le lezioni di italiano ricevute a renderla la grande scrittrice che è stata, quanto piuttosto le sue letture: la biblioteca del padre è un ottimo inizio, ma la vera fortuna fu la biblioteca del professore del Regio Ginnasio, scappato di tutta fretta senza pagar la pigione, ad arricchire la fantasia della scrittrice. Se leggere è un sogno, scrivere è la sua vocazione.
“Dopo , ho preso lezioni private d’italiano da un insegnante di scuola elementare. Mi assegnava dei temi da scrivere; alcuni di essi vennero fuori così bene che mi disse di pubblicarli in un giornale. Non sapevo che avrei potuto mandare i miei racconti. Ho trovato un giornale di moda e ho spedito una novella al suo indirizzo. Fu immediatamente pubblicata”. Era il 1888. Una partenza che non conosce arresto nemmeno quando viene pubblicamente ripresa in chiesa dal prete Virdis: “Farebbe bene a pregare chi invece si diletta nello scrivere per i giornali storie scostumate!” Grazia ha 17 anni e in sua difesa corre Antonio Ballero, letterato, pittore, fotografo e amico della giovanissima scrittrice. Chiede al prete di ritrattare ma è probabile che i due non abbiano trovato un accordo dato che vennero alle mani.
Nuoro: l’isola nell’isola
Nel 1871 quando Grazia Deledda nasce, Nuoro è ancora cuore selvaggio e genuino della Sardegna. L’Italia si è di recente unificata e gli assetti sociali sono prossimi al cambiamento: è crisi economica in tutta la Sardegna, specie in Barbagia che mal sopporta, come buona parte dell’isola, l’influenza culturale italiana: si tenta l’appiattimento della ricca tradizionale sarda, partendo proprio dalla sua linfa, la lingua. Il “nuovo” cambia gli assetti e del “nuovo” si ha una dannata paura prima, lo si odia e ci si ribella poi. Gli stessi scritti di Grazia, agli esordi della sua carriera di scrittrice, vengono definiti di gusto, ma ingenuamente dialettali. Ma la piccola Atene sarda è prossima alla sua esplosione: la corrente elettrica arriva nel 1914 quando tutta la citta è accalcata in Via Majore, in attesa che i lampioni prendano vita. I più scettici si domandano come possono quelle candele con la testa rivolta verso il basso prendere fuoco. Eppure si accendono, e Nuoro prende vita fra lo stupore generale. La città d’altronde è una fucina di talenti: Francesco Ciusa (Nuoro 1883 – 1949) ad esempio vive a poche case di distanza dalla scrittrice. Più giovane di 12 anni, ricorda nelle sue memorie di aver disturbato più di una volta le letture di Grazia. Amica di Antonio Ballero (Nuoro 1864 – 1949) pittore e letterato, Grazia Deledda apprezza sinceramente il lavoro di Giuseppe Biasi (Sassari 1885 – 1945) pittore, Sebastiano Satta (Nuoro 1867 – 1914) scrittore e di molti altri. Grazia è pronta a far sentire la sua voce e lo farà scrivendo.
Grazia la moderna
Grazia Deledda agli inizi del novecento fu sì esempio di modernità, ma a modo suo. Non lotta per le donne, non ci pensa proprio: lei lotta per sé stessa, lotta per affrancarsi dalle catene che la vincolano, lotta per la gloria che agogna, lotta per il potere che desidera e la scrittura, lei lo sa, diventerà un passpartù per aprire tutte queste porte. D’altronde l’emancipazione delle donne non la riguarda: non solo non ama le sue coetanee e conterranee, ma si sente profondamente differente da queste. In più di un’occasione si descrive “selvaggia, con tutte le franchezze e le ingenuità dei popoli incivili, ma diversa dalle altre fanciulle sarde, perché sente tutta la modernità della vita, dei tempi nuovi e dei nuovi ideali”. La sua personalissima emancipazione la ottiene d’altronde in una maniera del tutto insolita: non guarda, come fanno le altre donne rivoluzionarie di inizio novecento al futuro, ma si rivolge al vecchio, al passato, alla tradizione dalla quale fugge, ma della quale non può far a meno, come fosse un sicuro contenitore che le consente di vivere in libertà tutta la sua modernità. D’altronde non si stanca di descrivere la società sarda nella quale ha lungamente vissuto, come patriarcale. Eppure nei suoi romanzi (esattamente come nella sua vita) gli uomini vivono in balia delle vicende, e le figure forti, immutabili, glaciali sono tutte donne. Il contrasto è stridente anche nella sua vita romana: quando il marito fa rientro a casa lo chiama con i figli “il padrone” eppure Palmiro è piuttosto il suo segretario e factotum: studia lingue straniere per curare i contatti con gli editori di tutta Europa, ed è lui a inaugurare i rapporti con i personaggi di un certo rilievo per conto della moglie. Di questo strano menage familiare Pirandello (che non apprezzò mai Grazia Deledda) ne parla ironicamente nel suo “Il marito” una sorta di parodia che ebbe pochissimo successo e che l’autore rivide prima di morire. Grazia Deledda è temibile, Grazia Deledda nei suoi anni romani è temuta, eppure non si stanca di descriversi ed immaginarsi come una devota moglie sottomessa al marito, il padrone. L’unico modo, così la vedo io, per vivere la sua vita di donna moderna, pur non distaccandosi dalla tradizione nuorese nella quale è cresciuta, che rifugge partendo a per Roma per vivere la sua vita di scrittrice, ma della quale, l’abbiamo detto, Grazia Deledda non può fare a meno.
Grazia la scrittrice
Quando prende la penna in mano per la prima volta lo fa per raccontare di quei personaggi che ha conosciuto all’interno della sua cucina: Grazia bambina seduta davanti al fuoco domestico conosce la Sardegna e molti di quelli che diventeranno i personaggi dei suoi romanzi. D’altronde non era raro che il padre ospitasse amici provenienti dai paesi vicini e questi con i propri racconti e con le proprie vicende seminarono nella fantasia di Grazia mille e una storia. Poi c’era Andrea, il fratello che le racconta delle sue avventure e la portava fra pastori e amici, e i servi che lavoravano i terreni di famiglia. C’era Proto con le sue storie di santi, e il servo “che era amico dei latitanti e anche dei banditi” e di questi raccontava con gran consenso da parte dei bambini. Nel 1988 Grazia vede pubblicata nella rivista “L’ultima moda” la sua prima novella, “Sangue Sardo”. Due colonne di prosa ingenuamente dialettale, così le descrive dopo moltissimi anni, pubblicate solo grazie all’intraprendenza della giovanissima scrittrice che inviò in autonomia e con una certa audacia il suo racconto. L’evento destò all’interno delle mura domestiche una “condanna senza appello”. Eppure Grazia non abbandona il suo sogno e l’anno successivo invia alla rivista il suo primo romanzo. L’effetto è quello di scatenare “un rogo di malignità, di supposizioni scandalose, di profezie libertine”. Il suo successo Grazia lo deve solo a sé stessa: non solo ha di che scrivere e sa farlo, anche se ancora ingenuamente, ma contatta in prima persona le riviste che circolano sulla terra ferma, descrivendosi agli editori come “una fanciulla, posso anche dire un’artista sarda, piena di molta buona volontà, di molta fede e coraggio. Sono anche assai giovane e forse per ciò ho grandi sogni: ho anzi un sogno solo, grande, ed è di illustrare un paese sconosciuto che amo molto intensamente, la Sardegna”. La giovane sarda intraprendente piace così tanto ad Angelo De Gubernatis, che l’editore la invita a partecipare all’ambizioso progetto demologico che si concretizza nella “Rivista delle tradizioni popolari italiane” una scuola che forma la donna e arricchisce il suo bagaglio culturale. Si occupa personalmente di raccogliere l’immenso patrimonio tradizionale della ricchissima Nuoro e d’improvviso la Sardegna si fa nei suoi racconti più concreta ed onesta. Lei, Grazia, preferisce lasciare “da parte le scene selvagge e le storie di sangue fin qui narrate dai novellieri sardi, per cui la nostra cara Isola viene considerata come un focolare d’odio e di sangue”.
Grazia la donna
Per conoscere da vicino Grazia la donna è indispensabile leggere il suo romanzo nemmeno troppo velatamente autobiografico, nel quale l’autrice parla di sé in terza persona. Cosima d’altronde è il secondo nome di Grazietta (in famiglia la chiamavano così) e la casa, le vicende, il paese sono indiscutibilmente quelli che visse lei, la nuorese con lo strano vizio della scrittura. Grazia è vecchia quando scrive Cosima, per lei deve aver avuto il valore di un ritorno al passato, alle origini e si contenta di descrivere la sua vita come forse l’avrebbe voluta. Per farlo servono bugie, ma soprattutto servono omissioni e la più grande omissione è Stanis Manca, l’uomo del desiderio, l’amore. L’amore la bambina lo scopre per la prima volta con Antonio Pau, amico di Santus, “un bellissimo giovane bruno dall’aria un po’ beffarda”. Di lui Grazia parla apertamente, d’altronde non c’è niente da nascondere. Lo ammira timorosa da lontano e di lui si disamora man mano che cresce la sua popolarità. Fortunio è il suo secondo amore: guercio, fisicamente sgradevole, e per giunta figlio illegittimo di un cancelliere. Eppure Fortunio è poeta, e con lui scopre la passione dell’amore illegittimo, dei baci rubati dietro la vigna e delle lettere appassionate attaccate sulle copertine dei libri. L’avventura si conclude quando la vicenda trapela: i commenti feroci delle giovani nuoresi e la reazione di Andrea, il fratello, la fecero desistere da quella passione transitoria. E’ il settembre del 1891: Grazia scrive per la prima volta a Stanis Manca. Il giornalista romano chiede di andare a trovarla per un’intervista nella sua dimora nuorese e Grazia è sinceramente preoccupata: in realtà la scrittrice è certa che l’uomo voglia chiederla in sposa data la gentilezza dimostrata nei suoi confronti nelle lettere precedenti. Stanis Manca a chiederla in sposa non ci pensa nemmeno: più che innamorato è mosso da quella curiosità tutta giornalistica per quello strano fenomeno letterario paesano. La ventenne, e qui comincia la storia, scambia il suo interessamento per un corteggiamento galante. Non solo non la chiede in sposa, ma di persona è meno espansivo di quanto non sia stato per lettera. La stessa Grazia, descrittasi “pallida e bruna, un po’ spagnuola, un po’ araba, un po’ latina”, non è audace come su carta. Dopo il rientro a Roma le lettere di Stanis si fanno più rade ed il suo disinteresse diventa più che palese: a Grazia questo non preoccupa e nelle sue lettere si fa più audace “durante il viaggio nei villaggi rocciosi e selvaggi, ho pensato continuamente a lei”. Stanis non abbocca e nel 1892 lo scambio di lettere diventa un doloroso monologo. “Mio buon amico, eccomi nuovamente a voi, ma ad un patto: che non mi rispondiate se non avete tempo”. E lui non risponde, tenta piuttosto di tener le distanze in tutte le maniere. Il 1 giugno del 1892 Grazia, dopo mesi di silenzio inaugura così la sua lettera “Mio caro, non so più come chiamarvi, signore od amico”. Gli confida che teme lui abbia creduto, per via dei suoi modi affettuosi, che la donna si sia innamorata del giornalista, ma ancora Stanis non le risponde e lei durante quella stessa estate gli scrive ancora. La risposta di lui fu terribile, “una scudisciata sul volto” come racconterà poi a De Gubernatis, grande confidente della scrittrice. Lei di tutto quel via vai di lettere non solo non ne fa cenno in “Cosima”, ma si libera di qualsiasi scritto, lui invece, vuoi per orgoglio maschile, vuoi per la fama assunta dalla donna, conserva ogni foglio. Fatto è che Grazia non è ancora Premio Nobel e Stanis nel 1892 quando le risponde è senza pietà. Le confessa di averla trovata brutta, quasi deforme nella sua piccolezza, una nana. Non solo, Grazia è sconvenientemente ambiziosa: “Fra dieci anni sentirete parlare di me” gli scrive in una lettera, frase che evidentemente Manca, duca dell’Asinara non gradisce. Ostinatamente la donna scrive al giornalista fino al 1899, perché lo ama? Forse questa non è la risposta più corretta. Stanis Manca è tutto quello che Grazia Deledda non apprezza: biondo, grasso e Duca. La sua ostinazione è dovuta probabilmente (come ipotizzato dalla Rasy in “Ritratti di signora”) al fatto che Stanis è l’unico a rifiutarle simpatia e per giunta l’affetto e Grazia, che vive la situazione come una punizione per la sua diversità dalle altre donne, si ostina tenacemente tentando di conquistare quel che altri le concedono con estrema semplicità. Si innamora dell’idea d’essere legata al giornalista e la conquista diventa più che altro una missione, l’unica che Grazia fallisce. In parallelo Grazia conversa epistolarmente anche con Andrea Pirodda era un giovane di Aggius, suo conoscente fin dall’adolescenza. Nel 1891, oramai maestro elementare Andrea le fa una spietata corte, ma Grazia non se ne cura. Andrea lo ricontatta solo nella primavera del 1892 quando le lettere di Stanis iniziano a farsi rade ed in seguito crudeli. La donna non è più una ragazzina, le spuntano i primi capelli bianchi e Andrea Pirodda è la sua ancora di salvezza. Lo consiglia per conquistarsi una buona posizione, ma l’amore dei primi tempi degenera rapidamente: lui si tira indietro e un anno più tardi sposa un’altra.
Grazia la romana
Il 22 ottobre 1899 Grazia parte per Cagliari pagandosi il viaggio con i propri soldi: è stata invitata in città da Maria Manca, direttrice della prima rivista femminile pubblicata in Sardegna “La donna Sarda”. E’ a casa di questa che incontra il segretario all’intendenza di Finanza, Palmiro Madesani, che diventerà suo marito. Nei ricordi della scrittrice Palmiro è giovane e vestito di color marrone dorato, con due meravigliosi baffi dello stesso colore e gli occhi lunghi, orientali. L’11 gennaio del 1900 i due si sposano e nel mese di marzo Grazia si trasferisce a Roma. Il suo desiderio di visitare e vivere Roma è realizzato: tutto merito di Palmiro, suo biglietto di sola andata. Alla fine dell’anno nasce il primo figlio, Sardus, mentre il secondo Franz nascerà nel 1903. Grazia la romana è schiva ed evita gli incontri mondani eccezion fatta per alcuni appuntamenti a teatro e in ben selezionati salotti culturali nei quali conosce poeti, scrittori e personaggi di spicco. Vivere a Roma l’aiuta a far conoscere i suoi romanzi non solo all’Italia, ma all’Europa tutta. Nel 1909 collabora con la Terza Pagina del Corriere della Sera e sperimenta nuove forme di comunicazione artistica: teatro e cinema per primi e nel 1916 “Cenere” diventa un film con la grande Eleonora Duse nel ruolo della madre. Se durante i primi anni romani mantenne rapporti con la Sardegna che frequentava in occasione delle vacanze estive, lentamente il distacco si fece definitivo e nel 1920 Grazia sceglie Cervia come nuovo luogo di vacanza. Il Premio Nobel per la letteratura Grazia Deledda lo riceve nel 1926 “vista la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natia, e visto che con profondità e con calore tratta problemi di general interesse umano”. Più la donna invecchia più la scrittrice si fa schiva e ai giornalisti che l’intervistano racconta che la storia della sua vita sono le date dei suoi libri, niente di più, niente di meno. Pochi mesi prima di morire, a Mercede Mundula, sua fan diremmo oggi, concede qualcosa di più. Le raccontò che di lì a breve avrebbe fatto costruire un camino in casa, un camino simile a quello che aveva nella casa della sua infanzia, e che non mancava nelle case dei suoi romanzi, un fuoco per riscaldarsi le ossa, come le vecchie sarde nel suo paese. Quel camino Grazia non lo farà mai costruire: muore nell’agosto del 1936 a Roma. Nel 1959 la scrittrice rivide la sua Nuoro, quasi sessant’anni dopo l’abbandono. Ancora oggi riposa ai piedi dell’Orthobene nella chiesa della Solitudine. La chiesa in stato di abbandono fu ristrutturata grazie all’intervento di molti artisti isolani: i lavori iniziarono nel 1950 in collaborazione con Ciusa Romagna, Gabino Tilocca ed Eugenio Tavolara appassionati lettori della donna che scriveva di Sardegna. “Come nei racconti delle antiche genti, alla più tarda età; andarsene per l’ultima passeggiata in carrozza verso la pineta una sera di ottobre, accompagnati dall’inno sacro del mare, fra i candelabri accesi dei pioppi d’oro: fermarsi nel piccolo camposanto all’ombra glauca dei pini, tra i fiori azzurri del radicchio e le pigne spaccate che sembrano rose scolpite nel legno. Alla più tarda età”.