di Antonio Falda
Derby. Stracittadina. Nel caso nostro: straregionale. Due squadre. In A due. Due partite. Due volte l’anno. Una di andata e l’altra di ritorno. Così che gran parte della popolazione rugbistica regionale si trasferisce una volta giù al sud e l’altra su al nord. Una volta si sale tutti e l’altra si scende. Per assistere al derby. Che non è la corsa ippica al galoppo o il celebre locale notturno milanese degli anni sessanta che sfornava campioni sì ma di teatro, musica e canzoni ma è quello che sa di amicizie datate, di ricordi comuni, di giocatori scambiati. Di vecchie sfide, di quando i padri di oggi erano i ragazzi di allora.
Derby. La partita che si aspetta sin dalla prima di campionato. Che puoi anche perderle tutte ma quella no, non quella. Che a farne il pronostico si rischia di azzeccare sempre il risultato sbagliato. Solitamente il meno probabile. Perché un derby è sempre un derby. Dove più o meno ci si conosce tutti. Perché si sa che a praticare il rugby non si è poi così in tanti, figuriamoci qui da noi, in quest’ isola, che per metro quadro siamo già in pochi.
Derby. La cittadina inglese che sta a poco meno di un’ora di auto da Rugby, l’altra cittadina. Quella che ha donato il proprio nome allo sport più bello del mondo che altrimenti chissà come si sarebbe chiamato. Due città. Due parole che tra loro si somigliano. Di cinque lettere ciascuna. Che finiscono entrambe con la y. Come try. Così come l’ambito traguardo. La meta. Troppe coincidenze? Può darsi! Intanto gli spalti sono gremiti. Le voci si mischiano. La partita inizia, prosegue e si impenna tra mirabolanti colpi di scena e infine termina. Naturalmente. Tutto si conclude. Anche il derby.
Derby. Si pensa già al prossimo. Alla rivincita. Ad un’altra vittoria. Una birra. Con gli amici che non vedi da un po’. Prima di accingersi al viaggio di rientro. Prima di rinviare al prossimo appuntamento. Mentre scorrono i racconti. Mischiati, pigiati, in una club house strazeppa. Che per sentire quel che racconta Tony devi quasi far attenzione al labiale. Di quella volta che giocava in continente e dovette fare il riscaldamento prepartita per strada perché arrivarono così presto al campo che ancora era chiuso e il guardiano ancora a letto a casa. O di quella che volevano per forza che si giocasse con venticinque centimetri di neve. E di quando lo costringevano a pesarsi prima e dopo ogni allenamento e se non era calato di peso abbastanza voleva dire che in campo non aveva lavorato a sufficienza e allora gli toccava farsi un altro mucchio di flessioni. Dei racconti di Fabio e dei “Gods of Gamble”, il suo gruppo. Dove lui canta e suona il basso. Di quella volta indimenticabile che suonarono ad Oslo e della passione per la musica, quasi quanto quella per il rugby. O forse anche di più. Comunque due malattie incurabili che si somigliano. Dei commenti di Pietro. Spontanei. Sinceri. Delle emozioni. Sue. E di ciascuno di noi. Che quest’aria respiriamo. Condividiamo. Che ci piace vivere. Raccontare. Scrivere.