di Omar Onnis
Ci sarebbe forse da trarre qualche considerazione interessante, dalla campagna elettorale in corso, specie se messa a confronto con gli eventi, in qualche caso straordinari, che ne hanno condito l’andamento. È come se realtà contingente, processi profondi e mero intrattenimento si intrecciassero in una narrazione caotica e in apparenza senza punti di riferimento, eppure, a ben guardare, coerente e anche istruttiva,
Prendiamo le comparsate dei cosiddetti big politici italiani in Sardegna. Passerelle mediatiche, organizzate in modo da esaltare l’impressione del consenso e della partecipazione, veicolate attraverso cornici narrative standardizzate dalle convenzioni dello story telling politico contemporaneo. Nessuno sforzo creativo, nessun vero impegno. Unica caratteristica di queste visite di cortesia, la generalizzata lisciatura del pelo dei sardi. Tutti i vari capoccia italici a caccia di voti sull’Isola hanno voluto solleticare il nostro fantomatico orgoglio, il nostro senso di appartenenza identitario. Chi più chi meno, a volte con acrobazie retoriche che sfidavano la resistenza all’ilarità dei candidati medesimi, tutti quanti hanno assicurato massima attenzione ai problemi della Sardegna, hanno garantito il massimo impegno per risolverli, hanno giurato rispetto e ammirazione per la nostra specificità. Qualcuno, davvero senza vergogna, è arrivato persino a esprimere il desiderio di essere sardo. Evviva!
I sardi, tutti fieri e contenti, apparentemente se la sono bevuta. Apparentemente, perché la sensazione è che stia bollendo in pentola un malcontento che nessun legame clientelare, nessuna promessa magniloquente sembrano in grado di sedare del tutto.
I mass media sardi hanno fatto di tutto per disinnescare la possibile resipiscenza dell’opinione pubblica, buttando sulla scena ogni possibile dispositivo distraente. Le vicissitudini del Cagliari calcio e del suo presidente sono servite benissimo all’occorrenza. Una buona parte del disagio irriflesso dei sardi è stato incanalato su quel tema, caduto a fagiolo. Nemmeno le dimissioni del papa (fatto indubbiamente di rilevanza storica, quest’ultimo) hanno saputo oscurare la vicenda dello stadio del Cagliari con tutti i suoi corollari. Qualche candidato alla perenne ricerca della visibilità, furbescamente, ha messo il proprio sigillo sulla questione, tanto per cercare di raggranellare qualche voto in quel bacino di varia umanità, non sempre lucidissima, che sono i tifosi più accaniti. Chissà se sarà una mossa fruttuosa.
Certo è che la politica sarda si è tenuta lontana da qualsiasi questione problematica, nascondendosi dietro i grandi nomi (?) italiani che ci hanno concesso la grazia di una loro visita. Consci della propria scarsa presentabilità e di una credibilità in caduta libera, timorosi di togliere spazio ai propri veri padroni, i candidati sardi hanno volentieri demandato alla politica italiana (Grillo compreso) il compito di offrire risposte ai sardi.
Chiaramente lo spettacolo che ne è derivato – a guardarlo con un minimo di distacco – è di una mediocrità che sconfina nell’offensivo. L’elettorato sardo è stato trattato alla stregua di un’accozzaglia di deficienti, o qualcosa di simile. Il sospetto è che ce lo meritiamo pure.
Il problema però non è l’atteggiamento accondiscendente al limite del razzista dei politici italiani, bensì in generale la pochezza a cui si è ridotta ormai la politica sarda. Quel che deve preoccuparci è che ci troviamo in una situazione tra le più drammatiche degli ultimi settant’anni, e forse – escluse le guerre – degli ultimi duecento, senza una prospettiva, senza una classe dirigente all’altezza. Al di là dei politici, mestieranti al soldo di padroni esterni o di centri di interesse specifici, latita colpevolmente una classe intellettuale che risponda al proprio ruolo assumendosi qualche responsabilità, manca l’apporto del mondo del lavoro (tutto rappreso intorno alla difesa di posizioni che si sentono sotto minaccia), manca una sana riappropriazione di dignità e di consapevolezza collettiva.
Esemplare, in questo senso, l’appello fatto dai rettori dei due atenei sardi. In una occasione in cui era lecito aspettarsi non solo e non tanto l’ennesimo cahier de doléances, ma una presa di posizione ferma e propositiva sul futuro degli studi superiori in Sardegna, l’unica cosa che i due massimi esponenti dell’ambito accademico isolano sono riusciti a concepire è stata la richiesta ai candidati al governo dell’Italia che si interessino all’università italiana. E magari, en passant, di quella sarda. Non c’è che dire, quanto a lucidità politica e coscienza del proprio ruolo siamo a posto.
Sono scomparsi dal dibattito pubblico, posto che ci siano mai entrati, temi decisamente pressanti come l’analfabetismo funzionale della maggioranza della popolazione, la disoccupazione giovanile associata alla dispersione scolastica, la chiusura dei poli industriali senza alcuna previsione di bonifica seria e di rilancio produttivo, la questione delle insostenibili servitù militari, la vertenza entrate, la vertenza trasporti. Quando se ne parla, si sciorinano slogan triti e ritriti, soluzioni immaginifiche al limite della truffa (la “chimica verde”!) e vecchie promesse irrancidite. Un politico italiano assicura che appena arrivato al potere aprirà un tavolo di discussione su qualche problema sardo, e noi dovremmo essere soddisfatti. I nostri esimi rappresentanti lo sono sempre, ci mancherebbe. Guai a mettere in difficoltà il proprio datore di lavoro. L’indecorosa sceneggiata della direzione regionale del PD a proposito delle candidature, tanto bellicosa nelle dichiarazioni quanto pusillanime e servile nei fatti, è una dimostrazione lampante di quale sia il livello generale.
In definitiva, siamo messi male. Le tendenze statistiche ci confermano che i prossimi decenni, stanti le attuali dinamiche, vedranno un rapidissimo declino demografico, materiale e culturale dell’Isola. Gli effetti della dipendenza e della subalternità si mostrano già oggi con evidenza nella vita concreta di tanti sardi, eppure ancora in molti, compresi i più dotati di strumenti critici o chiamati a ruoli di responsabilità pubblica, si ostinano a vivere in un mondo fittizio, fatto di narrazioni irrealistiche, di televisione e di istinti tribali. Una parte dello stesso ambito politico che fa della prospettiva indipendentista la propria ragion d’essere si disgrega, attratto dalle sirene dei centri di potere dominanti. I leader storici del movimento, ormai sulla breccia da molti d’anni senza esiti degni di nota, si sono illusi che bastassero poche decine di seguaci fedeli e una certa esposizione mediatica per scardinare un sistema del quale hanno invece accettato il gioco e le regole, rimanendone vittime. Anche lì, urge un cambiaento di fase.
L’auspicio è che queste elezioni politiche italiane, così inutili e penose per la Sardegna, riescano a dare almeno un segnale. Di per sé non significano nulla, ma serviranno forse a innescare in qualcuno un processo di consapevolezza fino ad ora rimasto latente, o tenuto sotto controllo dalla paura, dalla fiducia nel sistema clientelare o dall’ignoranza, tutti fattori sapientemente alimentati negli anni. Dipendenrà anche dai numeri, dalla percentuale di astenuti e di voti nulli. Ma non c’è da illudersi che l’esito delle urne possa avere un effetto diretto sugli assetti politici locali. A livello di giunta e di consiglio regionale in troppi non hanno alcuna prospettiva di atterraggio morbido, in troppi rischiano di doversi trovare un lavoro, alla chiusura di questa legislatura. Per forti che possano essere i contrasti, per gravi che siano le urgenze a cui questa classe politica non ha saputo né saprà mai far fronte, difficile credere che ci sia tra gli ottanta consiglieri regionali e nella giunta di Cappellacci una diffusa disponibilità ad andarsene tutti a casa in anticipo. Il che ci esporrà ad un altro anno di agonia.
Intanto il nuovo governo italiano farà in tempo ad assestare qualche ulteriore colpo al nostro assetto socio-economico, ai nostri diritti e alle nostre aspettative. Possiamo confidare soltanto nello spirito di condivisione e di collaborazione che alberga ancora e nonostante tutto in tanti sardi e nella memoria profonda di noi stessi, per ovviare empiricamente, con le risorse di cui disponiamo, al peggio che ci aspetta. In attesa di poter costruire il meglio, con le nostre forze.