di Miriam Punzurudu *
Meglio da solo che con sferza e modi bruschi. Così impara a leggere e scrivere Giovanni Tolu (1822-1896) uno dei più noti banditi sardi dell’Ottocento. Autodidatta adulto, visto che da bambino rinuncia allo studio presso un severo parente prete. Libri e quaderni, amici fedeli, custodiscono parole capaci di svelare la verità. Parte un gioco di spola, avanti e indietro nel tempo. Lo animano cinque giovani fresche di laurea: Antonella Congiu, Manuela Erriu, Luisa Ornella Secci, Elisabetta Serri, Francesca Sirigu. Per la tesi nella facoltà di Lingue dell’Università di Cagliari hanno lavorato alla cura filologica del testo di Enrico Costa, “Giovanni Tolu. Storia di un bandito sardo narrata da lui medesimo” con prefazione di Sandro Catani e Giuseppe Marci, introduzione di Maurizio Virdis (Cuec, pp. 443, € 22). Nel novembre del 1895 Enrico Costa, già famoso scrittore e giornalista sassarese, riceve la visita di Giovanni Tolu che vuole affidargli la sua verità. È stanco delle invenzioni che girano sul suo conto in Italia e all’estero. L’editore Giuseppe Dessì accoglie il progetto e dal gennaio successivo iniziano gli incontri nello studio dello scrittore. Tolu fuma la pipa e racconta. I quasi trent’anni di latitanza, meno faticosi dei venticinque mesi di detenzione nelle carceri di Sassari, Oristano, Cagliari e Frosinone da cui esce assolto. Storie di familiari, amici, nemici; avventure amorose, autorità, deboli da lui difesi; omicidi commessi o indebitamente attribuitigli, ladri di bestiame, pirati. Ricorda l’infanzia felice a Florinas, vicino a Sassari, in una famiglia benvoluta e rispettata. Abile e volenteroso lavoratore, esperto di dottrina cristiana, può vivere onesto e sereno, invece diviene temuto signore dei boschi. Il 27 dicembre del 1850 soffia un vento violento. All’alba il ventottenne Giovanni Tolu aggredisce il prete Giovanni Masala Pittui, ritenuto responsabile dei suoi inspiegabili dolori fisici e della fine del matrimonio con la giovanissima Maria Francesca, da poco incinta. Anche per i compaesani Pittui procura malefici. Ricco e prepotente, gira armato, possiede cani feroci, frequenta cavalieri, avvocati, giudici e autorità di Sassari, dispensa promesse e minacce. Benché gravemente ferito organizza la vendetta. Tolu, non ancora omicida, individua le tre priorità del bandito: vendicarsi dei nemici, sfuggire ai carabinieri, punire le spie. La vita è rovesciata. Riposa di giorno, veglia di notte. Sempre vestito, sempre armato. Si rifugia nelle grotte o negli ovili di pastori amici. La famiglia e la comunità proteggono il figlio disgraziato. Perciò Costa propone un romanzo-verità (il libro uscirà nel 1897), come «denuncia dei costumi tutt’altro che limpidi dell’epoca e del malessere sociale». Emerge «un ritratto di tanta parte della Sardegna, dell’Italia soprattutto meridionale, della seconda metà dell’Ottocento». Torniamo al 1850. Da un anno siede sul trono Vittorio Emanuele II, ultimo re di Sardegna e primo d’Italia. Da appena due si è compiuta la fusione perfetta tra Piemonte e Sardegna. Che allora aveva 554.717 abitanti, il 91,75% analfabeti; 86,67% uomini e 96,41% donne. Una strada lunga e tortuosa lega questi numeri al lavoro delle giovani curatrici del volume. Le testimonianze delle cinque filologhe commuovono e accendono la rabbia per il lavoro che ancora non c’è in questa isola dimenticata. Eppure una di loro definisce «la cultura la sola manovra che ci possa salvare». Anche Tolu la pensa così. Per se stesso e per la figlia Maria Antonia. Scolara diligente e poi donna saggia, comprende torti e ragioni dei suoi infelici genitori che nessuno ha saputo aiutare.
* Unione Sarda