di Maria Adelasia Divona
Svegliata dal mio senso del dovere, che per la mattinata prevedeva la trasformazione in fatina del pulito, dopo settimane di abbandono della mia tana, metto i piedi giù dal letto e guardo il comodino sommerso nei suoi due ripiani dai libri acquisiti negli ultimi due mesi e che, per complicazioni di pensieri, sono rimasti là non letti a prendere polvere…in realtà c’è anche Neruda, che ogni tanto tiro fuori per rinfrancare quel lato poetico che mi fa difetto: ma siccome ho fatto il pieno prima di Natale, ora posso anche rimetterlo nel reparto dei “preferiti” fino al prossimo bisogno di poesia.
Devo decidere cosa lasciare e cosa mettere nel reparto dei “da leggere”. Cosa lascio: ovviamente quello che sto leggendo ora, “Dove nessuno ti troverà” di Alicia Gimenez Bartlett. Poi l’obbligo di due promesse da mantenere come letture prime di questo nuovo anno, anche letterario: “Il sangue della festa” di Anthony Muroni e “Canne al vento” di Grazia Deledda, di cui quest’anno ricorre il centenario. E mi tengo anche “Madama Sbatterfly” di Luciana Littizzetto, che a ridere, prima di andare a dormire, si sogna meglio. Lascio anche, in un angolo, “La Sardegna delle eccezioni” di Giacomo Mameli, di cui leggo una storia ogni tanto per convincermi che la mia Isola può ancora salvarsi da sé stessa.
Tutto il resto, sei sette volumi, lo prendo, così, in blocco, per riporlo nel “da leggere”.
Ma ecco che spunta un libro di itinerari turistici, “Paesaggi d’autore” raccontati da Marcello Fois. Vado nella sezione dedicata alla Sardegna, e inizio a leggere…tre su quattro sono racconti dei miei posti del cuore.
“In Gallura ci si può perdere, girare a caso…vai fino ad Aggius, in un anfiteatro di torri imponenti di granito. Vai, costeggia i monti…frastagliati, forati da caverne…la strada solenne fra boschi e macchie di lentisco, cisto, mirto, corbezzolo…e il profumo pungente dell’elicriso, quello che ti aveva accolto già scendendo dal traghetto. Anche questo è Sardegna, quella dei profumi, forti, avvolgenti, da lasciarti senza respiro. Entra nella valle della Luna…una distesa di massi e pietre… la pioggia, il sole e i ghiacci hanno lavorato questi scenari come una partitura musicale per il canto del vento, che l’ha interpretata levigandone le superficie e ricavandone forme fantastiche che narrano storie di millenni. […] i Pellerossa e i Sardi: due popoli costretti nelle riserve dai dominatori, depredati della terra dei loro antenati, ridotti senza patria, sacrificati all’avidità dei loro invasori” (Fabrizio De Andrè).
“Neppure varcare il mare mi inquieta: è scritto da sempre nel destino che noi sardi, per stare nel mondo, dobbiamo compiere il passaggio iniziatico verso l’oltre. È una dote, un’eredità amara e necessaria che ci tocca per nascita: il salto delle acque. […] L’altro giorno, per poter pensare senza i tormenti che mi assillano, sono tornata alla chiesetta della Solitudine […] è un luogo che offre molta pace. Quando morirò vorrei che ospitasse le mie spoglie…essere sepolta qui, dove parte il sentiero per l’Ortobene, il Monte che per i nuoresi porta in sé il nome di tutti i monti. Dovrai incontrarlo il Monte, granitico, aspro, fra cavità e torri di pietra, lecci e querce secolari. È qui che potrai davvero conoscere anche la mia anima. […] Voglio rivelare al mondo la mia Sardegna, così avvincente e misteriosa, pastorale, selvaggia ed incivile, che porta le tracce millenarie di ogni resistenza al mondo esterno nel paesaggio, nelle architetture, nell’animo dei suoi abitanti” (Grazia Deledda).
“«Accudiddu…arrivato da fuori, non sassarese in ciabi. Cosa vuol dire? Che non ha le chiavi per entrare in città. Prima c’erano quattro porte, e ne avevano le chiavi i sassaresi da sette generazioni. Ora non ci sono più né mura né porte. Tutto demolito. Solo un pezzetto qui vicino. Venga» […]attorno al Corso, in una mescolanza di stili, vive la vecchia Sassari, gotico-catalana, spagnola, pisana, genovese…tortuosa, popolare, colorita, decadente. Piccole borgate vivaci con la gente per strada, le vecchie sedute alla mezza-porta, le rivendite stagionali di vino, i ragazzini che giocano e, fra i resti delle mura, le antiche bettole e qualche forno di fainé: la farinata di ceci retaggio dei genovesi.[…] Sono terrorizzato all’idea di essere preso in ostaggio da questa banda di ubriaconi…No! Anche domani dentro quelle immense cantine sotterranee…per favore, no… è già sera e i compari progettano una cena di ziminu e ciogga, budella arrostite e lumache…” (Mario Sironi).
No, questa non è saudade da porcetto. Questo si chiama “Mal di Sardegna”. Al sollievo che ti prende la prima volta che varchi il Tirreno, prima o poi, ti colpisce, si insinua sottopelle e lì resta, latente, ma pronto a salire in superficie alla prima occasione. Come stamattina.
La fatina del pulito ha capito che oggi non è più giornata…subentra, per non pensare, la fatina dei fornelli…
SORTILEGIO
Quando ti staccherai per ripartire
dall’Isola dei Sardi
con la memoria densa
di favolosi incontri, di paesaggi
senza tempo e di antiche creature
pazienti, allora il cuore,
fratello d’oltremare,
ti peserà come un frutto maturo.
I tuoi occhi e i pensieri stenteranno
in quel commiato a sciogliersi
dalla terra, che quanto più dirada
tremula all’orizzonte,
sommessa più nell’anima s’addentra
con il suo sortilegio. Con un filtro
che ha il profumo del timo del Limbara
e del vino d’Oliena,
l’alito dei lentischi,
delle macchie di cisto,
il fiato delle umide scogliere,
il sapore del miele di Barbagia,
la dolcezza dei lidi e dei tramonti
lungo il Golfo degli Angeli,
il colore d’Alghero stemperato
con le sue torri bionde e le sue guglie
tra rive di corallo,
la forza millenaria
dei tòneri d’Ogliastra
e dei graniti azzurri di Gallura.
Questo filtro spremuto alle brughiere
e dal seno dei toschi,
dai vertici dei monti e dal respiro
degli abissi marini
ti correrà le vene in un languore
dolce ed amaro di malinconia
che forse chiamerai mal di Sardegna.
Marcello Serra 1982