di Raffaella Enis
Il 23 Novembre 2012 il Circolo Sardo di Berlino e.V ha inaugurato a Berlino, nel prestigioso spazio d’arte Grimmuseum, la mostra Empirical Survey on a Heritage. Fino al 18 Dicembre la mostra ha ospitato i lavori degli artisti che hanno partecipato al progetto Berlin-Island: Alessandro Sau, Cristina Meloni, Rugiada Cadoni from Y liver e Igor Muroni. Un progetto della Regione Autonoma della Sardegna, promosso dal Circolo Sardo di Berlino e.V, ideato e diretto da Giovanni Casu e curato da Giusy Sanna. Un esperimento culturale che ha avuto come oggetto di indagine la cultura sarda nell’arte contemporanea.
Tra gli artisti sardi di seconda generazione selezionati per Berlin-Island abbiamo intervistato Igor Muroni, professore presso la Nuova Accademia di Belle Arti – NABA di Milano, e dove dal 2011 dirige NABA SOUND. La sua ricerca artistica si avvale di diversi linguaggi: sonoro, audiovisivo, installativo e performativo. Nella performance sonora presentata all’apertura dell’Empirical Survey on a Heritage è protagonista di un esperimento dove la musica elettronica e la musica tradizionale delle launeddas riescono sorprendentemente a dialogare. Con la collaborazione del suonatore di launeddas Jonathan della Marianna, Igor Muroni ha offerto un punto di vista nuovo sullo strumento sia per chi è nato e cresciuto in Sardegna, sia per chi lo ascolta per la prima volta.
Puoi illustrarci brevemente il tuo percorso artistico e come sei entrato a contatto col progetto Berlin-Island? Il mio percorso si inaugura per due direzioni parellele e anche molto lontane tra di loro, la carriera universitaria che si conclude con la Laurea in Architettura, e il lavoro come deejay professionista legato ad un intrattenimento musicale proprio del dancefloor. La tesi di laurea la diedi intorno all’idea di considerare l’architettura in funzione del modo in cui il suono la fa vivere. Per molto tempo ho operato nell’ambito della musica sperimentale, presentando i miei concerti in vari festival, ma dopo un po’ non avevo più degli input stimolanti, per questo ho iniziato a ricercare nuovi linguaggi: visivi, installativi e performativi, così sono sbarcato nella dimensione dell’arte contemporanea. Rispetto a Berlino sono stato contattato da Giovanni Casu e Giusy Sanna per partecipare a questo progetto perché conoscevano i miei lavori e le mie origini sarde. Non ho un vissuto con la Sardegna, se non da turista, ma possiedo sicuramente un residuo sardo, essendo quella la mia origine. Il concept della mostra l’ho trovato estremamente interessante, l’idea di investigare attraverso due tipi di legame, da una parte attraverso il legame diretto degli artisti sardi col proprio territorio e dall’altra attraverso un rapporto indiretto, come il mio, e vedere se questi legami hanno dei punti in comune o meno.
Come immigrato sardo di seconda generazione ti senti erede di questa cultura? Non ho proprio degli elementi per strutturare un rapporto con la cultura sarda. Nel mio passato ho lavorato con Antonio Marras, un aspetto caratterizzante del suo lavoro è quello di rappresentare e costruire un immaginario sardo, anche nell’aspetto più folk. In quell’esperienza ho trovato un’immediata intesa.
Ci sono delle caratteristiche che a tuo parere potremmo definire sarde? La condizione dell’isola è una condizione diversa dal continente, c’è proprio una geografia che va a perimetrare il limite attraverso il mare, un rapporto con le distanze che si organizza attraverso mezzi di trasporto. Nato e cresciuto a Genova, dal porto tutti i giorni vedevo navi che partivano verso l’isola. Indirettamente sapevo che quell’isola stava oltre quella linea dell’orizzonte. C’è anche una letteratura che musicalmente richiama la Sardegna, come quella di De Andrè. C’è una storia che si sedimenta nel territorio, la sua storia si costruisce in funzione del fatto che è un’isola, quindi è inevitabilmente diversa dalla storia del continente. Ogni isola in qualche modo si costituisce per vie di collegamento che non sono terrene, ma marittime, quindi c’è nell’immagine romantica di chi naviga anche un profilo che è tendenzialmente contemplativo, riflessivo perché è la condizione stessa del mare. L’isola diventa quindi una grande nave nel mare, questo è un po’ come lo stesso De Andrè ci ha raccontato la Sardegna.
Da un punto di vista più specifico, da quello musicale, come è stata l’esperienza berlinese? L’occasione che mi ha offerto l’esperienza berlinese è stata anche la realizzazione di un sogno, quella di entrare in dialogo nella dimensione sonora con uno strumento che per timbrica, per tecnologia, per significanti sonori rappresenta anche l’aspetto più mistico della tradizione della Sardegna stessa. La timbrica delle launeddas è generata attraverso un processo di respirazione, uno strumento a fiato, e come tutti gli strumenti a fiato porta a un’idea di vitalità umana. Una timbrica che si sviluppa attraverso un’attività performativa, attraverso queste canne che si armonizzano tra di loro, e che tendono a definire una gestualità estremamente vitale. L’aspetto che è stato più affascinante scoprire è che si tratta di uno strumento che ripropone una musicalità della tradizione, ma senza una partitura musicale scritta. Ho scoperto che i brani non fanno riferimento a una scrittura musicale che ha un inizio e una fine, ma ad una modalità di esecuzione che non avendo una scrittura musicale può andare avanti ad oltranza, quindi l’elemento temporale si svincola dal disegno musicale.
Per questo possiamo dire che le launeddas potrebbero costituire un nuovo territorio di sperimentazione musicale? E’ uno strumento acustico estremamente sperimentale, non contemporaneo, ma di più, futuribile. Ricordo una cosa divertente, di come a Berlino tutti i colleghi sardi vedevano le launeddas. Per loro poteva essere un elemento limitante per l’esperimento della mostra, mentre al contrario la sua presenza per me e per i berlinesi era davvero un elemento innovatore e poetico. Da ciò ne ho potuto concludere che c’è un’attitudine comune a definire la propria identità tra chi è nato e cresciuto in Sardegna e chi ha origini sarde di seconda generazione. La differenza sta in coloro che nati e cresciuti in Sardegna vi riconoscono un’estetica d’identità con attitudini di distanza, come un qualcosa che non fa parte del futuribile, ma vi ritrovano un elemento folk, grottesco, superfluo. Al contrario per chi è di origini sarde trova in quello strumento degli elementi estremamente contemporanei, perché è libero dal disegno di una partitura e si articola con un’esternazione vitale attraverso processi armonici che danno spazializzazioni emotive, energetiche, partecipative, non individuali o intime. A Berlino i sardi hanno loro stessi riconsiderato quello strumento, come un elemento che può reinventarsi nel darsi un valore contemporaneo.
Come definisci questa ibridazione tra musica elettronica e tradizionale? In questo momento sono molto attratto da processi di ibridazione tra timbriche e acustiche che fanno parte delle tradizioni, con processazioni di tipo elettronico, che tendono a ridefinire la sorgente acustica. Sotto questo punto di vista l’esperienza a Berlino mi ha reso molto felice, anche per il modo in cui il suonatore di launeddas con cui ho fatto il concerto a Berlino ha affrontato l’esperimento. Jonathan Della Marianna è un ragazzo molto giovane che ha una formazione circoscritta ad un contesto folkloristico, ma quando gli ho proposto di mettersi in gioco ha immediatamente colto con entusiasmo l’invito sperimentale, ed è stato sorprendente come si sia concesso a quel tipo di esperienza, sebbene fosse completamente nuova per lui. L’elettronica in questo momento ha bisogno di ridefinirsi aprendo un dialogo con la tradizione acustica. L’ibridazione tra un residuo del passato, reinventato attraverso processi dell’immaginazione, che sono il futuro, va a riattivare dei territori di ricerca concreti, solidi, strutturati.
Come vedi l’artista sardo nel panorama internazionale dell’arte contemporanea? Gli artisti sardi devono mettersi più in gioco, saper parlare bene l’inglese, essere più pronti a dialogare con nuovi territori. L’artista è per sua definizione un investigatore. Molto spesso ai miei studenti cito Arthur Rimbaud: ”Nel momento in cui ho deciso che dovevo divenire un genio, ho capito che dovevo rinunciare a me stesso per divenire tutti”. Il lavoro dell’artista è quello di avere gli strumenti per l’esplorazione e gli strumenti per accorgersi delle scoperte che l’esplorazione gli mette davanti. Tendenzialmente lo stesso artista italiano, forse perché affogato dalla sua storia e dalla sua tradizione non si concede fino in fondo l’esperienza di ibridarsi e di dialogare con l’artista straniero.
La performance di Igor Muroni e di Jonathan della Marianna a Berlino ha quindi offerto degli interessanti spunti di riflessione, che ci portano a riconsiderare elementi della tradizione come strumenti che, al contrario, possono rivelarsi assolutamente innovatori e fruibili in un territorio aperto alle sperimentazioni, come quello dell’arte contemporanea. Dal 1 Marzo 2013 la mostra Berlin-island | Empirical Survey on a Heritage si sposterà nei locali del Lazzaretto di Cagliari, e insieme alle opere degli artisti di Berlin-Island essa raccoglierà anche i lavori degli artisti impegnati nei progetti precedenti: Genau! Sardina 2010 e Holiday Island 2011. Gli artisti sardi, la Sardegna e la sua eredità culturale nell’arte contemporanea sono al centro di questa indagine. Portare questa mostra a Cagliari rappresenta un momento di particolare rilievo, perché significa portare a casa i frutti di un progetto che si è realizzato nell’arco di tre anni. Per contribuire alla realizzazione della mostra e delle performance potete inviare una donazione cliccando sul link seguente: http://www.friendfund.com/pool/P3P1.BERLIN-ISLAND-Cultural-experiment-EMPIRICAL-SURVEY-ON-A-HERITAGE