di Sergio Portas
Comprando una copia del “Corriere” ed esibendo alla cassa del cinema il “coupon” apposito che contiene, si vanno a vedere i film della mostra di Venezia pagando tre euro. Per “Bellas mariposasa” di Salvatore Mereu avrei volentieri pagato anche il biglietto intero, che il film è tratto dall’omonimo libro che Sellerio fece uscire nel ’96, un anno dopo la morte del suo autore, portato via dal mare in tempesta di Carloforte: Sergio Atzeni. A Guspini gli hanno intitolato la biblioteca comunale, e dove se no, i suoi venivano da lì, seguendo il consiglio che trovo in un altro dei suoi libri (“Il figlio di Bakunin”, Sellerio ed.) : ”Vai a Guspini, i guspinesi hanno buona memoria, era un loro compaesano, sanno tutto, se chiederai racconteranno” (pag.12), vado a consultare la mia guspipedia (neologismo da wikipedia n.d.r.) preferita: mamma mia ( tutta la nostra famiglia è guspinesa). Ha compiuto l’altrieri novanta anni ma non ha voluto feste particolari ( si vedrà a chent’annos) ed è stata a scuola con il babbo di Sergio, Licio Atzeni. Si era nel 1930 o giù di lì. “Licio era uno dei pochi che allora portasse le scarpe, suo padre era calzolaio, aveva quattro sorelle, la più grande Taide e poi Ines e Maria e Sara, e (forse) due fratelli “in Marina”. La mamma signora Janine (sic) faceva la sarta: ha cucito l’abito da sposa di mia zia Nera, pagato insieme al corredo lavorando alla cernita del minerale alla miniera di Montevecchio. La maestra era la signorina Bonaria Podda e la più brava della classe, la figlia del maresciallo dei carabinieri Pierina Anedda, la sorella della mamma tzia Brigida Atzeni abitava in via Santa Maria…Va bene, è vero, i guspinesi hanno buona memoria. Del babbo e della mamma di Sergio si può leggere nel libro che scrisse la moglie di Velio Spano, Nadia Gallico Spano: “Mabruk, ricordi di un’inguaribile ottimista” (AM&D ed. 2005) perché la loro vita e attività politica è tutta intrecciata a quella di questi due dirigenti del PCI, ambedue eletti quando si riscrissero le regole della nuova Italia democratica all’assemblea costituente. Questo il “brodo di coltura guspinese” in cui è venuto su Sergio Atzeni: Velio Spano, due condanne a morte in contumacia dal tribunale fascista, Licio Atzeni, premiato dal generale Alexander nel’45 per “his contribuition to the cause of freedom”. Le loro mogli di pari spessore morale e politico. Che finisse per scrivere per l’Unità di Cagliari, per Sergio, era quasi destino segnato. Qui incontrò i Giovanni Lay ( in carcere con Gramsci) e gli Umberto Cardia che tanto contarono per la sua crescita e formazione e Cagliari divenne la “sua città”, quella che ancora non aveva trovato un cantore: quello che lui decise di essere. Quella che si ritrova in molti dei suoi scritti. E’ uno di quei sardi che se ne andò in continente e poi in mezza Europa Sergio Atzeni, traduceva saggi e romanzi dal francese, si autodefiniva in tempi non sospetti: sardo, italiano e europeo. Tutte e tre le cose insieme, anche se sardo veniva prima. Della storia mitica della Sardegna (“Passavamo sulla terra leggeri” Mondadori ed.) fece metafora letteraria assolutamente originale. Di Cagliari ha scritto Giuseppe Marci “Sergio Atzeni aveva con la sua città un rapporto intimo. La percepiva carnalmente, nella realtà fisica dei luoghi, negli odori, negli umori degli abitanti, nella lingua”. In “Bellas mariposas” si vive nella Cagliari dei suoi quartieri degradati, Cate e Luna sono le dodicenni che ce la fanno vedere in una giornata di caldo sole estivo (via Filiberto Crocorigas vuota deserta automobili parcheggiate affondavano nell’asfalto liquido onde umide si alzavano e avvolgevano la città non c’era anima viva, pag.112). Senza punteggiatura, come fosse un flusso di coscienza che racconta in diretta. Usando un gergo di italiano misto a dialetto tipo: i maschi sono così la minca è il pezzo più importante; o ancora: mamma lavora non come quel pezzemmerda di babbo; tirato al massimo e profumato come una bagassa Tonio è uscito di casa alle cinque e mezzo.
Cate vive in una famiglia che dire sgarruppata è poco, uno stuolo tra fratelli e sorelle una delle quali Mandarina “pringia a tredici anni adesso ne ha venti e ha tre figli batte in casa privata”, lei è vergine e tale vuole restare anche se ha l’innamorato suo , Gigi del quinto piano che però “non si è mai permesso di allungare le mani se provava gliele tagliavo”, lei vuole diventare “rockstar”, “dopo che sarò rockstar sceglierò l’uomo”. Luna Cotzas è la “migliore amica mia uguale a me di corpo di viso di capelli…una volta Luna ha detto che mio padre si è coddato sua madre tre giorni dopo la mia…è probabile…lui dice che quando era giovane era bello come Robert De Niro in Taxi Draiver…Berus nudda dice mamma fia leggiu cument’è sempre stato brutto e mandrone” (pag.86). Si intuisce che una conoscenza non approssimativa del campidanese, visto che non c’è traduzione alcuna neppure nelle note, consente di apprezzare il gioco linguistico sotteso, che danza nella scrittura come una coga che legge il destino nelle mani delle persone. Una coga che arriva alla fine del libro a districare una situazione apparentemente senza uscita, nel film una statuaria Michela Ramazzotti che non rinuncia alla sua biondità, nel libro circondata da otto gatti neri con una macchia bianca sull’occhio sinistro che fanno evoluzioni da acrobati. Salvatore Mereu a mio avviso è riuscito nel tentativo di trovare un linguaggio filmico che facesse da contraltare al ritmo di scrittura che Sergio Atzeni adotta nel suo libro. E anche gli attori che ha diretto sono all’altezza della situazione, spettacoloso il babbo erotomane di Cate in un ruolo dove rischiava la deriva macchiettististica, Luciano Curreli, e brave le due bimbe Cate e Luna, letteralmente catturate dalla scuola media dove studiavano e catapultate in una dimensione come quella veneziana che le ha ammutolite in conferenza stampa, come è giusto che sia per due dodicenni acqua e sapone quale loro sono. Cagliari si vede meno, i quartieri dove il film è per lo più girato potrebbero essere quelli degradati di qualsiasi grande città. E anche il dialetto sardo nel film è meno pregnante che nel libro. E parlo di dialetto perché anche la lingua sarda, oltre che l’italiana, è volutamente storpiata, violentata quasi dalle novità linguistiche che vengono dalla radio, dalla televisione mal digerita, dai nuovi gerghi delle “ghenghe” giovanili che spacciano droga e fanno impennare i motorini la notte. Ha scritto Mauro Pala: “ Bellas Mariposas “fotografa”la situazione attuale di molti parlanti, sopratutto giovani
ed è un quadro che non può soddisfare i puristi. Ma si tratta di un quadro veritiero, anche per ciò che concerne l’identità di quei parlanti. Atzeni non tratta il dialetto alla stregua di un codice degradato, come faceva Gadda, che lo detestava, né come Pasolini, che provava una carità di matrice cristiana per i suoi borgatari in attesa di riscatto sociale. No Atzeni inscena- la sua è pur sempre fiction, ma amplificata, ad alto peso specifico- una cronaca asciutta e ironica, tenera e insieme impietosa, dove non c’è spazio per palingenesi e riscoperta di un passato nobile e nobilitante”. E P. Chaimoseau (poeta creolo che Atzeni avrebbe tradotto n.d.r.) nella “Grotta della vipera” n.72/73 1995, “Pour Sergio”: “Eravamo d’accordo perché le lingue perdano il loro orgoglio ed entrino nell’umiltà dei linguaggi, dei linguaggi liberi, dei linguaggi folli, dei trasalimenti che li rendano disponibili a tutte le lingue del mondo… perché in questo mondo che ha infine una possibilità di risvegliarsi, il traduttore diventi il pastore della Diversità. Il paese di Sergio è una terra di linguaggi, d’ombra e di luce, e di diversità. Egli capiva ciò che io dicevo. Lo sapeva già”.