di Paolo Pulina
Intervengo nella discussione che ha visto impegnati in questo blog “Tottus in Pari” Massimo Cossu e Maria Adelasia Divona, cioè due giovani esponenti dell’emigrazione sarda organizzata nell’Italia continentale (quindi della FASI: Cossu è componente del Comitato Esecutivo nazionale; Divona è componente del Direttivo del Circolo sardo di Udine). Il tema che sta a cuore è, semplificando: per un giovane sardo oggi ci vuole più coraggio a restare nell’isola natia o ad emigrare?
A mio avviso, Massimo Cossu risulta sostenitore della “sardità”: «Il mare è il confine naturale che ti dà un’identità. Nascere in un’isola è una cosa per la quale non ti senti mai abbandonato, che ti resta tatuata addosso per sempre, come un marchio identificatorio che ti contraddistingue dal resto; è un modo preciso di percepire gli spazi, il tempo, il destino che ti ha scelto a nascere, a vivere e a partire da lì. Nascere in un’isola è come sentirsi dire che stai da una parte della riva, che calpesti quella terra e non un’altra.[…] Restare in Sardegna se si può non è un alibi, ma un diritto. Per restare bisogna essere generosi e anche un po’ folli; per tornare coraggiosi. […] Non biasimo chi decide di partire ma sono fiero della gente che con sacrificio decide di rimanere dall’altra parte della riva.[…]. A voi – che siete figli, nipoti, di coloro che, in periodi storici anche peggiori di questo, hanno avuto la forza di dare un futuro a sé stessi e alla propria famiglia, che non si sono arresi a una vita di stenti e hanno lottato perché altrove potessero vivere con più dignità e che ancora oggi, attraverso i nostri Circoli, vogliono conoscere, studiare e diffondere la cultura dei loro antenati – va tutto il mio affetto. Perché in un modo o in un altro, anche queste nuove generazioni, pur vivendo altrove, hanno deciso di restare, restare e rimanere per sempre della propria identità, l’unica identità, quella che li contraddistingue come “figli di un’alba remota”».
A mio parere, per Maria Adelasia Divona vale invece il principio della “sarditudine”: «Voglio rompere il postulato biologico-geografico che vuole che si sia Sardi solo perché nati in Sardegna, cui è legato, per alcuni, il corollario identitario per cui si è Sardi solo perché si parla la lingua sarda. […] Io credo che Sardi non si nasca, ma si diventi: sono Sardi, con la stessa dignità e la stessa libertà di definirsi tali, i Sardi di dentro e i Sardi di fuori, gli Accudiddi (chi è immigrato in Sardegna) e i Disterraus (chi è emigrato fuori dalla Sardegna). […] Come non esiste uno standard che ci consenta di misurare la nostra maggiore o minore sardità, così non siamo in grado di dire se siano più o meno coraggiosi/generosi quelli che restano in Sardegna o quelli che decidono di partire. Rimanere e partire sono le due facce della medaglia: a parità di circostanze, scommettere su una o sull’altra implica una uguale dose di coraggio, ma soprattutto una uguale razione di fatica e di sofferenza […]. Il coraggio di scommettere ce l’hai sia che parti sia che resti. E sei generoso verso la terra madre sia che decidi di restare per prendertene cura, sia che decidi di partire con l’idea di tornare con una ricchezza di capitale umano che sei pronto a restituirle per il solo fatto di averti visto nascere, anche se poi l’idea non si concretizza. […] Oltremare non c’è il paese di bengodi, perché tutto va guadagnato con fatica e sofferenza, che accomuna quelli di fuori con quelli di dentro».
Da quanto ho detto nel mio contributo nel corso dei lavori del quinto Congresso della FASI (Abano Terme, ottobre 2011) risulta che la mia posizione è orientata anch’essa a privilegiare l’orizzonte della “sarditudine”: poiché, con i tempi che corrono, sarà difficile vedere entro breve tempo la pubblicazione degli Atti del Congresso, mi permetto di rimandare al link che consente di recuperare in questo blog “Tottus in Pari”, che gentilmente lo ha pubblicato, il testo integrale della mia relazione dal titolo “L’organizzazione FASI ti può aiutare a (ri)scoprire le radici ma poi devi essere tu a coltivarle”:
Ora, il concetto di “sarditudine” (ma anche di “sicilitudine”: si vedano a questo proposito gli scritti di Leonardo Sciascia e di Gesualdo Bufalino) è esemplato su quello di “negritudine”. Dice giustamente il vocabolario Treccani: «negritùdine s. f. [adattam. del fr. négritude (der. di nègre “negro”), termine coniato, o per lo meno diffuso, dallo scrittore e presidente del Senegal L.-S. Senghor (1906-2001)]».
Lo stesso dizionario, dopo aver definito correttamente la negritudine come «coscienza e rivendicazione della tradizione culturale negra come patrimonio culturale autonomo da difendere e preservare contro ogni tentativo di assimilazione da parte della cultura europea», scrive che «il termine ha come sinonimo negrità».
A me sembra invece che una differenza ci sia: “negrità” e “sardità” rinviano a dati biologici-geografici-anagrafici esteriori (in linguistica “denotativi”) mentre “negritudine” e “sarditudine” rimandano a un complesso di elementi soprattutto interiori (in linguistica “connotativi”), quella che il sardo Gramsci chiamava “concezione del mondo”.
Sto rileggendo in questi giorni, per un convegno che il Circolo culturale sardo “Logudoro” organizza a Pavia, sabato 17 novembre 2012, su Giuseppe Dessì (a quaranta anni dalla pubblicazione del suo romanzo più famoso, “Paese d’ombre”, che nel 1972 vinse anche il Premio Strega), la raccolta di suoi scritti saggistici “Un pezzo di luna: note, memoria e immagini della Sardegna” mirabilmente curata da Anna Dolfi per le Edizioni Della Torre.
Del grande scrittore sardo – tanto per rimanere al nostro tema: nato a Cagliari per l’anagrafe ma che affermava di sentirsi villacidrese di cuore, di sentimenti, di memorie – molti corregionali magari non hanno letto neanche un’opera (e invece farebbero bene a farlo), ma conoscono almeno questa riflessione: «Non so più nemmeno se il mio sia amore oppure fastidio, rabbia di essere nato là, di essere legato, di rimanere legato per tutta la vita a una terra tanto vecchia e tanto lontana dal mondo nel quale vivo. Eppure quella è la mia piccola patria. Là sono diventato uomo, là è la mia gente, dove io ho vissuto bambino, la casa di mio padre, case e tombe. Ma ciò che conta di più è che io, anche ora, se vado là, mi sento più forte e intelligente, anzi onnisciente. Se immergo la mano nell’ acqua della Spendula, o del Rio Manno, so di che cosa è fatta quell’acqua. Se raccolgo un sasso di Giarrana, ho di quel sasso una conoscenza che arriva fino alle molecole, fino all’atomo. Là mi sono sentito al centro dell’universo come un astronauta. È per questo che sono geloso della mia terra, della mia Isola, e odio tutto ciò che può renderla volgare».
Lo scrittore è stato emigrato come noi – si può dire – per tutta la vita in diverse città dell’Italia continentale (e sarebbe il caso che qualche Circolo FASI di queste città o vicino a queste città lo ricordasse in maniera adeguata…) ma per tutta la vita, da lontano, ha continuato a pensare alla “sua” Sardegna e si è adoperato con gli scritti e con le immagini (fotografiche e cinematografiche) per farne conoscere la storia, la civiltà, animato da quello “Insel –Spleen” (sentimento dell’Isola) che noi sardi di fuori ci portiamo dentro, come lui, come una magnifica ossessione, quella della “sarditudine”. E dato che abbiamo deciso, scegliendo con cognizione di causa, di essere attivi nel circuito organizzativo delle associazioni degli emigrati sardi, nei Circoli interclassisti e intergenerazionali (e non nelle certamente più tranquille – e più gratificanti dal punto di vista dell’incremento delle relazioni con le persone “che contano” – associazioni di distinzione sociale dove la vita associativa è una serie di pranzi/cene di gala), abbiamo addirittura la certezza che le iniziative che ci detta la nostra “sarditudine” siano più incisive di quelle del grande scrittore, che purtroppo – a dispetto della sua disponibilità verso tutti i sardi – è riuscito a far arrivare la propria voce solo ad una minoranza culturalmente motivata.
Piccola nota velenosa in chiusura. Dessì diceva: «Combattiamo tutto ciò che rende volgare la Sardegna». Ebbene è volgare, a mio avviso, che una persona in Sardegna, nel misero tentativo di dimostrare di essere capace di definire il concetto di “Insel –Spleen” (sentimento dell’Isola), rubi letteralmente e vergognosamente le parole a Giuseppe Dessì (si veda “Scoperta della Sardegna” nella raccolta sopra citata) e in più osi anche firmare il misfatto (altro che “sardità” o “sarditudine”!). Non volete crederci? Provate a digitare in Google “Insel Spleen” e cliccate su
Il recupero dei centri storici – Fiore Graniti
poi “scavate” il riquadro a pagina quattro del giornale.
Paolo grazie per i riferimenti e le puntualizzazioni. Probabilmente mi sono persa il tuo intervento ad Abano, ma hai fatto bene a riproporlo. nelle parole di De Stefanin mi identifico: sto riscoprendo le mie radici e ho scelto la strada della sarditudine.
Intervengo sulla sarditudine perché non so se Paolo Pulina sappia che insieme a Dessì, Sciascia, Bufalino, Adelasia e Massimo Cossu, anche altri, me compreso, hanno elaborato il tema. Bisognerebbe essere documentati se si interviene come puntualizzatori. Alla sarditudine come visione del mondo un poco di scrittura io l’ho dedicata. E qualche volta, mi sembra di ricordare, la questione è emersa anche in Tottusinpari. Non vorrei che Paolo Pulina abbia imparato come fare comunicazione letteraria dalle scrittrici e scrittori nouvelle vague tipo Murgia e Fois che dicono di aver scoperto tutto loro già da prima che loro esistessero. E tutti a credergli. Il contrario cioè della sarditudine come comprensione del tempo, come lo si attraversa, dentro l’Isola e fuori. Evitiamo di continuare a mistificare.
Però!
Su Sarditudine e pure su Sicilitudine ci sono diverse cose in http://www.natalinopiras.it. Tag: Sarditudine, Sicilitudine, Isole, Sciascia, Bufalino, Satta, Dessì etc. Un aggiornamento oggi, domenica 14 ottobre, appunto “Sarditudine”, nel mio “Mattutino” facebook.