di Massimo Cossu
Il mare è il confine naturale che ti dà un’identità. Nascere in un’isola è una cosa per la quale non ti senti mai abbandonato, che ti resta tatuata addosso per sempre, come un marchio identificatorio che ti cotraddistingue dal resto; è un modo preciso di percepire gli spazi, il tempo, il destino che ti ha scelto a nascere, a vivere e a partire da lì. Nascere in un’isola è come sentirsi dire che stai da una parte della riva, che calpesti quella terra e non un’altra. Il mare è quell’orizzonte in cui Dio ti fa intendere da subito che hai la possibilità di andartene, così che diventi immigrato prima di fuggire, lo sei in potenza prima che in atto, nella testa prima che nella realtà, nella scelta prima di aver deciso. E allora resti tutta la vita a chiederti come saresti stato a “casa” se alla fine hai deciso di sbarcare in un altro porto dove tutto appare cosi lontano dalle solite barche posteggiate a schiera, o come saresti stato nel “continente” se hai deciso di restare, di rimanere speranzoso. Il sardo vivrà comunque con la nostalgia di una vita che ha deciso di non intraprendere. Vive, aldilà della scelta, nel suo isolamento quotidiano tra il partire e il rimanere… La sofferenza la misuri a tratti e quando poi la senti farsi pesante, ti senti terribilmente solo, di una solitudine che si fatica a descrivere tanto è difficile da interpretare. Perché lo sdraricamento delle proprie radici, non ha prezzo e ad andarsene sono bravi tutti, per restare bisogna invece essere generosi. È naturale che questa frase è provocatoria e non parla di chi emigra per “trovare un’occupazione”, ma di chi ha il coraggio di scommettere. Mi rivolgo invece ai giovani che ben istruiti e con grandi capacità decidono di partire, quando la nostra Sardegna avrebbe bisogno dei suoi migliori studenti e laureati, per risorgere, per competere, per insegnare. Vorrei condividere proprio con voi che dimostrate di amare le vostre origini, la mia stesa Terra, un pensiero diverso che vuole arrivare ai sardi che hanno scelto di restare, anche se, ad esempio, fare il ricercatore in Italia significa fare la fame, non avere mai un vero contratto; anche se significa una vita rincorrendo il minimo che ti spetta; anche se a passarti davanti saranno sempre i “figli di”… “i soliti”. Anche se tutta questa fatica vuole dire un’esistenza frustrante e con il solo scopo di lavorare per far funzionare qualcosa in un’isola e in un Paese e che non ti merita. Dio sa quanto si fatica! Dire questo oggi, in tempi così duri, con un Governo d’emergenza impegnato a fare quelle riforme che la politica ha rimandato per anni, non è assolutamente una passeggiata. Quando ti accorgi sin da studente che l’immobilismo nostrano, radicato nei secoli distruggerà le aspettative e la speranza di emancipazione, anche dell’ultima generazione, non ti resta che partire, scappare il più lontano possibile da una terra che non ti da risposte, che non vuole ascoltare e che forse non accetti in modo definitivo. Però a me questa rabbia mi ha portato a una conclusione diversa: restare, rimanere lì – perché qualcuno dovrà pur prendersi cura di quelle coste, di quelle montagne, dello spopolamento, di tutto, della Terra – resistere e pretendere un mondo migliore, reale e non solo immaginario. Non è certo facile mollare gli affetti e la propria casa per inseguire il “pane quotidiano” come per inseguire il successo o un sogno. Conosco alla perfezione le vite di tanti miei coetanei, i loro volti segnati dalla solitudine, perché improvvisamente ti manca un amico, una fidanzata, la famiglia. In fondo chi te lo fa fare a rimanere in una terra che non ti apprezza, non ti istruisce adeguatamente, non ti sostiene, non ti premia, quando fuori c’è un mondo che non esita un istante a darti ciò che ti spetta. Chi potrebbe andarsene e non lo fa, a mio avviso va ricordato. Non è un vigliacco, non è un bamboccione. È l’immigrato mancato, quello che ha avuto la fortuna di poter scegliere e ha preferito perdere del “successo sicuro” altrove, per provare a donare le proprie capacità alla sua terra, alla sua gente. Restare in Sardegna se si può non è un alibi, ma un diritto. Per restare bisogna essere generosi e anche un po’ folli; per tornare coraggiosi. “Ci vuole tanto, troppo coraggio” (F.Deandrè). Non biasimo chi decide di partire ma sono fiero della gente che con sacrificio decidono di rimanere dall’altra parte della riva, o che da lontano non smette di informarsi riguardo la loro vecchia terra. A voi che siete figli, nipoti, di chi in periodi storici, anche peggiori di questo, hanno avuto la forza di dare un futuro a se stessi e alla propria famiglia, che non si sono arresi a una vita di stenti e hanno lottato perché altrove potessero vivere con più dignità e che ancora oggi, attraverso i nostri Circoli vogliono conoscere, studiare e diffondere la cultura dei loro antenati, va tutti il mio affetto. Perché in un modo o in un altro, anche queste nuove generazioni pur vivendo altrove ha deciso di restare, restare e rimanere per sempre della propria identità, l’unica identità, quella che li contradistingue come “figli di un alba remota”.