MINIERA, ALCOA E ALTRI SEGNALI DI COMA: UNA MIRIADE DI FALLIMENTI NELL'INDUSTRIALIZZAZIONE IN SARDEGNA

 
di Gianfranco Pintore

L’agonia della industrializzazione in Sardegna ha ripreso le prime pagine dei quotidiani e le aperture dei telegiornali. Ora tocca alla miniera di Nuraxi Figus, ieri all’Alcoa, prima alla Vinyls e prima ancora alla petrolchimica di Ottana. Fra l’uno e l’altro dramma, una miriade di fallimenti nell’industria tessile, in quella estrattiva (qualcuno ricorderà pure l’infamia della miniera d’oro di Furtei) e in quella edilizia. Figli della mala sorte, questi fallimenti? No, ma neppure figli solo della politica che di questi e di futuri disastri è responsabile insieme ai sindacati, ad una imprenditoria compradora e di una intellettualità impastoiata nella retorica industrialista  e incapace di esercitare la critica. O meglio, critica sì, ma nei confronti delle poche voci avverse, accusate di essere nemiche della classe operaia e delle sue magnifiche sorti e progressive. I partiti italiani, tutti senza eccezione e con a volte la complicità del Partito sardo, hanno nel passato condiviso e fatto digerire ai sardi la monocultura petrolchimica e, quando questa cominciò ad agonizzare, stanziarono una quantità enorme di denaro per prolungare questo coma irreversibile invece di elaborare un progetto per la fuoriuscita non traumatica dalla crisi. Se la politica ebbe gravi responsabilità, non minori furono quelle degli altri segmenti della classe dirigente sarda. La incapacità di avere visioni autonome da quelle proprie delle rispettive centrali statali, fece sì che le imprese più truffaldine in circolazione potessero far nido in Sardegna con il finanziamento della mano pubblica. Colpa di partiti incolti e etero-diretti, certo, ma non si è mai sentita una voce critica da parte dei sindacati, degli imprenditori. Solo a truffa avvenuta e solo per l’intervento della magistratura si è “scoperta” una faccenda lampante. L’Alcoa, una delle industrie più affamate di energia in una terra dall’energia carissima, è a rischio chiusura da almeno tre anni. Tre anni perduti nella irresponsabile corsa ad illudere i lavoratori che ne fosse possibile salvezza e rilancio. Persi, dico, perché in tre anni si sarebbe dovuto e potuto trovare una via di uscita non per conservazione di quel “posto di lavoro” ma per la sicurezza del lavoro. Fra qualche giorno, a Roma la questione dell’Acoa sarà al centro di un incontro che dovrebbe affrontare anche quella, davvero disperata, della miniera di Nuraxi Figus (Nuracsi, come pronunciano irritanti annunciatori televisivi, tanto pieni di sé da neppure informarsi). Se per la fabbrica d’alluminio, qualche speranza di prolungamento d’agonia c’è, per la miniera del Sulcis pare proprio di no.

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Un commento

  1. Mariano Muggianu

    Sono vicino a questi lavoratori, come agli altri che vivono lo stesso dramma. Ma bisogna capire che queste eterne vertenze continueranno a segnare la nostra terra e il nostro paese se non si ammoderna lo stato sociale, garantendo tutti allo stesso modo. Queste battaglie per salvare aziende e posti di lavoro non più sostenuti dal mercato sono umanamente comprensibili, ma non risolvono i problemi. Come hanno capito nei paesi più evoluti, non si devono tutelare le realtà improduttive, bensì i lavoratori, TUTTI I LAVORATORI. Conosci tante persone che hanno perso il posto di lavoro o sono da anni disoccupati e non ricevono nessuna solidarietà dal Capo dello Stato, nessuna attenzione dai mass media, nessuna forma di assistenza pubblica. Ai lavoratori deve essere garantita una dignitosa esistenza, ma tenere in piedi realtà non più competitive si traduce in ingenti sprechi di denaro pubblico. Ma purtroppo ancora non si trova il coraggio di avviare riforme coraggiose per tagliare quella spesa pubblica che, camuffata da lavoro, è semplicemente assistenza. Non sono contrario all’assistenza, anzi, ma questa deve essere equa, seguire criteri generali e obiettivi. Il nostro regime assistenziale invece è iniquo e inadeguato per chi è effettivamente bisognoso.

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