La miniera, sa mina, è una parte considerevole della nostra identità di sardi. È una storia plurimillenaria. Ad metalla, alla miniere di ferro e di rame, era la condanna per gli schiavi già al tempo dei romani. La Sardegna è argyroflebs, vena d’argento, arteria scintillante nel cuore del mondo come il fiume Congo nel romanzo Cuore di tenebra, come il Fiume Giallo nel film Apocalypse now. La miniera è tutto questo. Sarditudine. Abbiamo assorbito la condizione de sa mina e ancora la rivendichiamo come lavoro, tempo presente, futuro. E memoria sostanziale per il racconto, per il grido, l’urlo. Tale e quale quello dei 40 minatori dentro il pozzo di Nuraxi Figus, nel Sulcis Iglesiente, 400 metri sotto terra, nel cuore del cuore della tenebra. Il loro grido è il nostro. Come storia comune. “Avanti, neri/Compagni mal sepolti”. Così Bustianu Satta intona una delle sue Icnusie in memoria dei morti di Buggerru. Erano minatori. Scioperavano, manifestavano, gridavano, urlavano per il pane, per il lavoro, per condizioni meno disumane. Ebbero piombo. Quel giorno a Buggerru, per riprendere qui la piece teatrale di un altro nuorese, Romano Ruju, cui si unisce la voce forte del poeta Francesco Masala, è il centro. Anche della protesta dei 40 nel pozzo di Nuraxi Figus. Nel nome di tutti i sardi e anche per i mineros delle Asturie e la loro protesta, della Cina, del Cile e dei loro morti sottoterra, di tutto il mondo. Pure la memoria di tutte le Marcinelle, il grisou di tutte le viscere della terra. Il pozzo di Nuraxi Figus ci rende comunità locale e globale. Ci appartiene. Mica è cosa estranea come la costa smeralda, terra sarda usurpata dal turismo dei potenti e dei ricchi, tanti nuovi padroni e sfruttatori delle miniere. E dire che il Sulcis niente ha da invidiare, come bellezza paesaggistica, alla terra che fu civiltà dello stazzo ed è diventata, dice bene l’antropologo Bandinu fattosi narratore, luogo dove la morte non ha nome, come se sia possibile rimuoverla dal ciclo vitale. Sa mina, la miniera, è la nostra vita, il nostro tempo orizzontale e curvo. È la nostra Mundana Cummedia, per riprendere qui il capolavoro in limba sarda di Salvatore Poddighe, poeta minero, poeta della disperazione, del grido e dell’urlo, anima delle voci dei 40 nel pozzo di Nuraxi Figus. Come nella Mundana Cummedia il linguaggio contemporaneo della miniera implode, elabora, esplode. Fuoco e fiamme dalle viscere del vulcano. Comente sos vulcanos fumu e fogu mandan dae sas visceras issoro. E ragioni. Di vita, di speranza nonostante tutto. Uno dei significati che attribuisco alla parola Chentomines, luogo di storie plurimillenarie, è “cento mine, cento miniere”. Come mito all’orizzonte, come storia contigua. Come crogiuolo della memoria, come tempo a venire. È un fatto di come la letteratura debba essere organizzazione della speranza. In questo corre di pari passo, cammina, scende nelle viscere della terra insieme ai mineros sulcitanos.
MINEROS SULCITANOS: LA MINIERA E' UNA PARTE CONSIDEREVOLE DELLA NOSTRA IDENTITA' DI SARDI
Aggiungi ai preferiti : Permalink.
che tristezza e quanta disperazione sui volti di quei 40 minatori! Conosco bene i problemi del Sulcis perchè ci sono nata..Il mio augurio è che ben presto su quei volti e sulle loro famiglie torni il sorriso.
“coraggiu fradi miusu, andai ainantisi e cumbattei acomenti ei sempri fattu, sen’e perdi sa calma…
speru chi carincuno agatti prestu una soluzioni a qustu dramma chi seisi bivendi…nosu si sigheusu dogna di anche si seusu attesu..”