di Claudia Zedda
Ad attraversare quel fino lembo di terra che fa di un’isola un frammento di penisola, ho avuto la sensazione d’immergermi sempre più a fondo nella favola. Tutto merito della laguna stirata da un vento invisibile, mi sono detta, e di quelle famigliole che l’attraversavano, mezzo immerse nell’acqua salmastra, alla ricerca di chissà quale tesoro. Ma non è solo merito di quella pozza d’acqua tiepida, che separa Sant’Antioco dalla terra “ferma” a renderla mondo di fiaba, è piuttosto quell’atmosfera che vive l’isola nell’isola, di ricercata solitudine, di pacata tranquillità, di totale e perenne assenza di fretta, lontana da tutti e da tutto. Sant’Antioco è figlia di mare, e il mare come un padre affettuoso, nella buona e nella cattiva sorte l’ha nutrita, cresciuta, fintanto che, forte abbastanza, non si è alzata sulle proprie gambe e ha mosso i primi passi. E’ arrivato anche il dolore dal mare, la morte e i soprusi, ma pare che la gente, oggi, non se ne ricordi più, in quella piccola macchia di terra, che somiglia a Carloforte, ma che in fondo è cosa totalmente diversa. Il mare d’altronde sa come farsi perdonare, che ancora oggi offre su un vassoio d’ambra e oro il frutto più prezioso della Pinna Nobilis, il bisso, nonostante l’inquinamento, nonostante la pesca, nonostante l’uomo. A non conoscere il bisso, non si commette peccato, che in fondo, a sapere di cosa si tratti sono davvero pochi. E’ un fatto però che non appena assaporato il discorso, non se ne sia mai paghi. Il bisso è una bava che diventa fibra, prodotta dalla più grande bivalve di tutto il mediterraneo, e fin qui niente di strano. Quel che sorprende è piuttosto il fatto che questa bava venga estratta, essiccata, cardata, dissalata e filata. La fibra si presenta, prima d’essere tessuta, morbida come riccioli d’ambra, più o meno dorati a seconda dell’esposizione al sole. Questa fibra ha vestito papi e imperatori in passato, quando la pesca della Pinna Nobilis era cosa consentita, e data la lavorazione certosina, si trattava di prodotti di pregio, preziosi, non da tutti. Una pratica lunga, faticosa, lenta e forse nemmeno troppo remunerativa, tant’è che da quando la pesca della Pinna Nobilis è stata vietata, in poche, in pochissime hanno conservato fra le mani quell’arte che i sardi impararono dai lontani amici e nemici: i fenici. E’ questo a rendere tanto unica Chiara Vigo, la maestra che opera in quel museo simile piuttosto a bottega e laboratorio, rifugio e tana. Prima di lei c’è stata Leonilde, sua nonna e dopo di lei ci sarà Maddalena, sua figlia in una continuità di gesti e di saperi femminili che è possibile solamente assaporare scivolando dentro il Museo del Bisso. Non è solo l’arte di cui è maestra a fare speciale quella donna dagli occhi di fata, quanto piuttosto quel desiderio di mostrare, di condividere, di offrire agli altri. D’altronde lei non pare stanca di ripeterlo: il bisso, come il mare, devono rimanere bene di tutti. Forse è per questo che il suo museo non conosce biglietto d’ingresso, e forse è per questo che ama circondarsi di bambini che l’osservano, come si fa con chi crea con le proprie mani meraviglie. In penombra, nel suo laboratorio si può scivolare nel sogno, mentre Chiara Vigo mostra la cardatura, la filatura, la torsione e la tessitura della fibra. Le pareti sono uno scorrere di foto in bianco e nero e ricami che hanno tutti qualcosa da raccontare, e tutto intorno è palese il legame di quella donna, che riempie la sala della sua voce, con il mare. D’altronde maestri di quell’arte antica non si nasce, ma lo si diventa e non prima d’aver giurato al mare il rispetto e l’amore che merita.