di Roberta Murroni
La mia è una famiglia di immigrati, giacché mia nonna paterna è francese e mia madre pugliese, e di emigrati: uno zio di mio padre, Flavio Murroni, emigrò negli Stati Uniti d’America e di lui si persero le tracce. Solo la mia tenacia, quando ancora ero poco più che adolescente i mezzi telematici assai obsoleti, mi permise di ritrovare i parenti americani, residenti tra New York e la Florida. Inutile dirlo, iniziai a porre domande, interrogare su quali fossero i loro pensieri circa questa isoletta del Mediterraneo, se conoscessero qualcosa della storia di famiglia, se sentissero il richiamo di questa terra ancestrale. Mi ritrovai spesso a raccontare la Sardegna attuale, essendo i ricordi dei racconti di zio Flavio ben sfumati e inseriti in una realtà ben lontana da quella moderna: una Sardegna anni ‘40, post bellica, affamata con il capoluogo di regione totalmente da ricostruire dopo il bombardamento del 17 febbraio 1943 da parte degli americani. L’emigrazione sarda in Argentina, iniziata tardi rispetto a quella di altre regioni, ha visto i flussi maggiori a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento dirigersi verso il continente americano ed il Centro Europa, con picchi di ritorno negli anni Settanta, poco incidenti la demografia dell’isola in quanto di debole consistenza numerica. I fattori di spinta (push factors) e di attrazione (pull factors) posso essere identificati nella povertà dell’isola, la cui economia era improntata sull’agricoltura e l’allevamento di bestiame, e nella diminuzione del lavoro minerario, questo soprattutto nel Sulcis Iglesiente. Motivo di attrazione furono, più in generale, le sterminate terre coltivabili argentine, la richiesta di lavoratori stagionali e permanenti nelle varie estancias, la possibilità di mantenere il passaporto italiano. Molti anni dopo le ricerche riguardanti la mia famiglia, iniziai a studiare il fenomeno dell’emigrazione sarda verso l’Argentina, sotto la spinta della professoressa Emilia Perassi, già mia relatrice della tesi di laurea triennale in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università Statale di Milano, di Martino Contu, presidente del centro studi SEA (Centro Studi sulla Sardegna e sui rapporti storici, culturali, sociali ed economici con l’Europa e l’America Latina) di Villacidro e Luciano Gallinari, ricercatore del CNR. Nel 2009, con un bagaglio non eccessivamente nutrito circa la “questione sarda”, ho presentato un progetto di ricerca e cercato l’approvazione da parte dei principali comuni del Sulcis, nonché dei capoluoghi della nuova Provincia; la richiesta di appoggio e logistico al progetto di ricerca da me elaborato ha trovato fallimento nelle risposte delle istituzioni, quanto la sottoscritta risultava “poco credibile data la giovane età e la ricerca è di dubbio interesse”. Decisi che sarei partita comunque per l’Argentina, spese totalmente a carico della mia famiglia, per ricercare i sardi del Sulcis Iglesiente che si erano trasferiti a vivere in Argentina del secondo dopoguerra.
La storia di Flavia Porcu ed Aurelio Meloni. Incontro la famiglia Porcu grazie a mio suocero Gian Lario Muscas. Mi racconta che alcuni suoi amici di Gonnesa hanno parenti in Argentina. Così, nel lontano 2009, mi reco a casa della famiglia Garau e intervisto Annarella Meloni, simpatica signora nativa di Nebida. Annarella mi racconta della sorella, mi mostra le foto del suo viaggio in Argentina, e mi dice che il nipote di sua sorella, Juan Franco, è un ragazzino appassionato di tecnologia. Decido così di scovarlo su facebook. Al mio arrivo in Argentina, a gennaio 2010, è uno dei primi sardo-argentini che incontro. Capisce bene l’italiano, ma non lo parla. Organizza un incontro con la famiglia e, un weekend di febbraio, in piena estate ma in un giorno di pioggia, mi reco a Campana, la cittadina dove risiede la famiglia. Che dire? Sono stata accolta come una di famiglia, da una frase indimenticabile detta da signor Aurelio («ge mi praxiri custa picciocchedda, chistionara!») e dalla dolcezza della signora Flavia. Le singole storie di Aurelio Porcu e Flavia Meloni sono abbastanza difficili da riportare per iscritto perché, nonostante l’intenzione di voler dividere le interviste in due momenti, durante la registrazione video continue incursioni di voci fuori campo si susseguono. Queste incursioni sono abbastanza curiose e divertenti, soprattutto quelle da parte della signora Flavia e del secondogenito Adrian, che sembra voler sempre ricordare di più, o meglio, le vicende narrate dal padre. Mi rivolgo dapprima ad Aurelio, chiedendogli le generalità. Lui esordisce con un sorriso. «Presente! Mi chiamo Aurelio Porcu, sono nato a Iglesias il 5 luglio 1927. Scuole non ne ho fatte.» Entra in gioco la moglie Flavia: «Sì un po’ di scuole sì!» «Ho lavorato in miniera a Monteponi, ero armatore, ho lavorato 12 anni. Prendo la pensione dalla miniera. Sono stato militare a Cividale del Friuli, vicino Udine. Non ho fatto a tempo a fare la guerra.» Chiedo ad Aurelio in quale occasione abbia conosciuto sua moglie. Lui mi guarda un po’ spaesata, non ricorda certe sottigliezze. «Eh, quello lì…» Flavia risponde per lui. «Per mezzo di una cugina di lui, che eravamo amiche e mi ha detto “io c’ho un cugino sai che bellino che è” e quelle cose lì.. E allora bueno, da li abbiamo cominciato. Io sono di Nebida, andavo ad Iglesias, però sono venti minuti di distanza. Siamo stati assieme sei anni e mezzo quando ci siamo conosciuti. Io avevo 14 anni e lui 21, aveva già fatto il militare. Papà aveva un negozio di verdure e io lavoravo con loro. Io sono Flavia Meloni, sono nata il 18 maggio 1933 a Nebida, i miei genitori sono di Nebida.» Aurelio irrompe nel discorso, o meglio, si riappropria di quella che è la sua intervista e dice: «I miei genitori sono di Iglesias.» Gli chiedo come mai abbia deciso di emigrare proprio verso l’Argentina. Sospirando risponde. «Per provare e per non seguitare a fare il lavoro che facevo lì; in miniera era dura. A me ha chiamato mio cognato, era il marito di mia sorella, si erano sposati per procura, e io ho approfittato di venire assieme con mia sorella, direttamente qui a Campana. Non ho conosciuto altro posto. Ho lavorato alla Dalmine, per circa sette anni…» Si intromette il secondogenito della coppia, Adrian. «Ventisette, babbo!» Aurelio risponde subito. «Sì, ventisette, ora sono andato in pensione prima del tempo perché…» Ritorna Adrian, che pare ricordare tutti i dettagli della vita dei genitori. «Sì, perché… i lavoratori sardi… chi ha lavorato in miniera va in pensione prima.» Chiedo come sia stato andare via dalla Sardegna. Aurelio cerca di dire qualcosa, ma Flavia lo blocca dicendo: «No, si era spensierati allora non si pensava a nulla, uno era giovane». Aurelio ribatte: «Non avevo ancora provato niente di strano coi miei genitori, ero tranquillo, però sempre pensando a loro. Io mai ho pensato di tornare in Sardegna, però subito mi sono messo in marcia per lavorare, così io…». Finalmente Aurelio prende coraggio, si apre ed inizia a raccontare ciò che ricorda del suo arrivo. «Mi sono trovato bene perché ho trovato una squadra di ragazzi,eravamo tutti giovani, e così non mi sono perso mai, niente, perché ero abituato così durante che ero in Italia. Ho avuto contatti con altri sardi, quello si perché ho trovato abbastanza… ce n’erano di Nuoro, Sassari. La verità è che la vita era migliore di adesso. Io mi ricordo che quello che aveva intenzione di farsi la casa, se la faceva, adesso no. Non ho pensato di tornare, però, quando siamo partiti già eravamo già messi con intenzione di piantare la nostra vita qui.» Quando gli chiedo se, quando pensa a se stesso, si sente più sardo o argentino, sgrana gli occhi, come non avesse capito la domanda. «No, eheheh! Io sono sardo! Io non disprezzo l’Argentina ma…» Flavia prontamente ricompare in scena. «Non lo possiamo fare, a me mi chiedono… A me piace, perché vivo. Io sono venuta perché c’era lui, già avevo il bambino, Giancarlo aveva pochi mesi. Ci siamo sposati in Sardegna, e lui è partito da solo. Lui ha visto il bambino quando aveva 15 mesi. Lasciare Nebida non è stato difficile, non ricordo… ero contenta perché andavo da mio marito, lo avevo qua, avevo il bambino poi dopo poco è nato Adriano, cosicché uno poi dopo non ha pensato ad andare via, perché ha la famiglia qua.» Le chiedo come sia stato l’impatto con questa nuova realtà. «è stato difficile, uno doveva iniziare da tutto, questa casa era vuota, noi siamo vivendo in questa casa, in quella epoca non era nostra, e però era vuota, avevamo le piccole cose… abbiamo dovuto fare tutto, con piacere, uno vedeva che uno lo poteva fare, i bambini sono andati alla scuola, sono andati al jardin… La corrispondenza c’era, ma non era come ora e prendeva il telefono, io ricordo che passavo ore scrivendo. La verità è che una eterna nostalgia c’è… così però… no… Poi veniva quella voglia di andar via, di fare un viaggio… però di viverci no, perché quando sono andata, che so io, non vedevo l’ora di tornare qui. Mi piaceva, ero contenta però…» Chiedo anche a lei se si senta sarda o argentina. Risponde serafica. «Io sono sarda, quello non lo togliamo, però voglio bene anche a Argentina, sono molti anni… voglio bene a questa terra.»
Seconda generazione: le storie di Adrian e Giancarlo Porcu. Adrian Porcu, secondogenito della coppia Meloni-Porcu, è quello che ricorda più di tutti le storie familiari. Pur essendo argentino di nascita, parla con un forte accento sulcitano, quasi anche più degli stessi genitori. è il primo dei due fratelli ad offrirsi per l’intervista, anche se non ha molto da raccontare. Giancarlo è di poche parole, preferisce non raccontare ma in realtà, dietro il suo apparente disinteresse, tanto palesato da sembrare infastidito, si nasconde una grande timidezza davanti alla telecamera che lo riprende; accade spesso che molti dei miei intervistati siano inibiti dall’uso di un apparecchio tanto tecnologico come una piccola macchina digitale. Una volta spento l’apparecchio, il discorso diventa più formale, gli intervistati si lasciano andare a maggiori confidenze. «Mi chiamo Adrian Porcu e sono nato l’11 agosto 1958 a Campana, ed ho sempre vissuto qui; lavoro anche io all’ex Dalmine, con mio padre. Però in Sardegna ci sono stato, nel 1991. Penso, da quel che ho visto, che è uno dei posti più belli dell’Italia… però non c’è lavoro, la gioventù se ne deve andare, non c’è nulla da fare. Mi sono sposato con una donna argentina, di cognome è italiana, fa Rapuzzi, ma sono argentini, neanche il padre di lei sa dell’origine, forse il nonno… Con lei ho due figli gemelli, Gonzalo e Rodrigo. Loro non hanno mai visto la Sardegna, solo io ci sono stato, ma non ero sposato. Ho imparato l’italiano a casa, dai miei genitori; capisco il dialetto ma non lo parlo! Mi sento argentino, ma con sangue sardo.» Giancarlo Porcu.«Sono Giancarlo Porcu, nelle carte italiane, ma qua mi chiamano Juan Carlos. In Italia è un nome, qua sono due. Io sono nato a Iglesias.» Inizia così il dialogo con Giancarlo Porru, primogenito della famiglia. Lo corregge subito Adrian suggerendogli «sei nato a Nebida», con man forte di Flavia che ribatte: «Sì, lui è nato a Nebida, comune di Iglesias». Giancarlo dice di non ricordarsi esattamente.«Ah io non mi ricordo, c’eravate voi, ma nei documenti queda così!» Essendo giunto in Argentina quando aveva solo quindici mesi, non ricorda nulla, ma la Sardegna gli è rimasta impressa dai racconti dei genitori. «Della Sardegna so che è bella, bellissima, però non c’è possibilità. L’ho vista in filmati, fotografie. Lo vado a fare quello… lo farò… di andare. Ho fatto le scuole ed ora lavoro alla ex Dalmine da 34 anni. Fra quattro anni mi jubilo, 4 o 5 e vado a Sardegna… eheheheh, devo aspettare quei soldi!» Il dialogo qui si fa concitato, uno ad uno, gli altri attori irrompono in scena. Irrompe dapprima Aurelio: «Vengo anche io in viaggio e me lo paghi!» Flavia controbatte: «Lui con tutti andrebbe!» Aurelio risponde infastidito: «Ma stai zitta, tu ti sei messa in lista per avere il viaggio dalla regione!» Flavia spiega quindi che «sì, molti anziani si mettono in lista, ma io no…» Aurelio dice a voce alta, visibilmente seccato: «Io mica sono anziano!» Riesco a riportare l’ordine e ritornare finalmente a Giancarlo. Mi dice di sentirsi sia sardo che argentino, che per lui la questione è più difficile rispetto al fratello Adrian. Giancarlo dice di sentirsi diviso a metà: una parte di lui è sarda, nata in Sardegna, l’altra è totalmente argentina.«Per me è difficile, sono di sangue sardo, sono nato lì… ma sono argentino, ho moglie argentina, ho figli argentini… Io mi sento argentino ma… metà e metà… però mia moglie è Amantini, di origine napoletana e spagnola da parte di bisnonni.» Flavia tiene però a precisare: «Però quando Giancarlo vede le partite, tifa l’Italia.» Giancarlo guarda di sottecchi ed annuisce.
Terza generazione: la storia di Juan Franco Porcu. Juan Franco Porcu è nato a Campana, cittadina a 30 chilometri da Buenos Aires, il 21 giugno 1989; ha due sorelle, Mariela, nata a Campana il 15 dicembre 1987 e Romina, la maggiore, nata sempre a Campana l’8 agosto 1984. Juan Franco vive ancora con i genitori, ha iniziato l’università con l’obiettivo di laurearsi in Leggi; tuttavia, ha dovuto abbandonare gli studi per difficoltà nella gestione organizzativa del tempo di studio e di lavoro. Attualmente lavora presso un broker doganale, ma in passato ha lavorato nella gestione di database per numerose aziende. Non ama molto parlare di sé e, nonostante gli sforzi, non ha mai voluto rilasciare una vera intervista; dai vari discorsi intrattenuti con Juan Franco, sappiamo che non è mai stato in Italia, tanto meno in Sardegna, ma da sempre nutre una forte curiosità. «I miei nonni da sempre mi raccontano della loro terra, delle usanze. Mi hanno detto che prevalentemente si vive di allevamento, però non so… non ci sono mai stato… Vorrei andare in Sardegna, in vacanza, ma mi piacerebbe viverci, in Sardegna o in Italia. I miei nonni, senza alcun dubbio, sentono nostalgia per quella che è la loro terra; è da tanto tempo che non tornano, che non vedono la loro famiglia che è rimasta in Sardegna.»