di Sergio Portas
Ancora una volta Antonio Marras, lo stilista algherese che ha saputo ritagliarsi un ruolo importante nella “haute couture” italiana, ha messo a disposizione quello che in termini minimalistici, qui a Milano, va sotto la definizione di “spazio Marras”. Una vecchia bottega artigiana riattata a caverna d’Alì Babà, con abiti di lusso appesi in modo falsamente casuale, alcuni illuminati dal basso: che appaiono quali fantasmi luminosi intenti a ballare una danza al ritmo di una musica piena di silenzi e di pause ultraterrene, eseguita per esseri che sanno ancora muoversi pur se hanno smarrito la testa tra i centodue lampadari di ceramica che pendono dai soffitti. Antonio al solito veste di grigio, un giorno mi verrà il coraggio necessario di chiedergli se è solo il caso che regola i nostri non frequentissimi incontri a volere così, o se è una sua predilezione di tutti i giorni. Marcello lui finge di ricordarsi di me, e in vero ci siamo parecchio incrociati, visto la sua prolificità nello scrivere di tutto. Nato a Nùoro nel ’50 ha un palmares che conta più di venti libri, senza contare la sua produzione di sceneggiatore televisivo. Oggi è qui, Lella Costa a fargli da lettrice di prestigio con i toni delle sua voce affinati in mille palcoscenici, e Stefano Salis, un sardo di Sant’Antioco che è responsabile delle pagine letterarie del supplemento “Domenica” del “Sole 24 Ore”, e docente universitario e scrittore pure lui, insomma un super esperto ai lavori (letterari) a cui lascerò volentieri la parola per quello che riguarda la critica di questo ultimo lavoro dell’autore barbaricino: “Nel tempo di mezzo”, Einaudi editore. Solo di scorcio mi occorre di dire che , nel frattempo, il libro è fra i cinque che si contenderanno il premio “Campiello” nonché l’altrettanto prestigioso “Strega”. Fa parte di una trilogia iniziata un paio d’anni fa con l’uscita di “Stirpe” (Sempre Einaudi 2009), che mi sono andato a rileggere molto volentieri, tanto mi aveva colpito per la bellezza della scrittura. E per la storia narrata naturalmente: con Nùoro a sfondo Michele Angelo e Mercede cadono l’uno in amore dell’altro, lei con quei capelli da indigena, color blu. Lucidi come una pennellata di smalto. Che sarebbero nerissimi, “ma la luce accumulandosi attorno al canale bianchissimo della scriminatura, li fa blu”. Questi Chironi portano avanti la storia della loro famiglia dai primi del novecento sino alla seconda guerra mondiale, in Stirpe, e nel tempo di mezzo si arriva ai nostri giorni. Scrive Giorgio Vasta su “Repubblica” del 28 marzo u.s.: “Il romanzo racconta l’apprendistato di vita di Vincenzo a partire dal 1943, dunque al centro della seconda guerra mondiale, tenendo però conto del fatto che in Sardegna la guerra è un rumore attutito ( “come ascoltare dei vicini che litigano, che rompono i piatti), perché quell’isola- quel miocardio piantato nel Mediterraneo-è sistole e diastole, trattiene e allontana la percezione del mondo. E’ un altrove che resta irraggiungibile non soltanto per chi arriva da fuori ma perfino per i sardi stessi”. E questo Vincenzo arriva dal Friuli a incontrare parenti che non sapeva di avere (il Chironi da cui nasce muore nel massacro planetario de “Sa gherra”, sa manna) nel tentativo di scegliersi una identità nuova, a carattere sardo. Lella Costa esordisce col dire di questo libro che “suona benissimo”, che le descrizioni dei luoghi sono forse una delle cose più belle del romanzo e che trova la trama essere “molto sarda”, “con una sfiga incombente da cui non ci si libera”. Stefano Salis è amico di Fois da sempre e rivendica il privilegio di aver assistito alla crescita della sua scrittura fin dai tempi di “Picta”( premio Calvino 1992). Del personaggio Vincenzo lo dice venendo dal nulla nel tentativo di riprendersi una vita. Descritto con una sicurezza e una capacità palese, cosciente. Addirittura “troppo bene”, un tentativo di scrivere un classico contemporaneo dai moduli classici: una saga familiare dai toni epici e lirici, con parole necessarie. Con gli anni che se ne passano e nulla succede. Capace però di parlare a tutti. “Io tento di imparare più che mi sia possibile”, dice Marcello, “sono stato un bimbo molto osservatore, e gran lettore. Forse è possibile poter scrivere un classico, anche se non lo saprò mai. Del resto non sono mai stato un autore tattico. Ma piuttosto preoccupato della scrittura nel senso biologico del termine. Per anni lettore compulsivo, senza selezionare nulla. Ma ho capito delle cose con pazienza. E gli ultimi tre romanzi, a partire anche da “Memoria del vuoto” li ho scritti “da padre”. I miei genitori se ne erano andati. E allora devi accollarti qualche sofferenza, qualche pensiero. Dopo essermi “ben preparato” ho scritto “Stirpe”, senza che mi sia costato grandi sforzi. Non sono un nostalgico, mi piace il tempo in cui vivo. Anche se la perdita della sobrietà mi spiace moltissimo. Una volta il povero e il ricco camminavano insieme e non si distinguevano. Siamo diventati un popolo di buzzurri. I Chironi dei miei libri passano attraverso tre guerre, un classico ha il dovere di riportare una contabilità di morte. Ho avuto un approccio elementare, rendere straordinario l’ordinario”. Gliene dà atto anche Vasta che, sempre su “Repubblica” dice che Fois si fa carico di qualcosa che oggi nella vita fratta, ha le proporzioni della sfida: dare forma a un epos, prendere l’umano e cantarlo, conferire esistenza agli individui e alla loro storia attraverso le parole. Anche Salis trova che in “Stirpe” prevalga un tono epico di scrittura mentre si passa, nel nuovo romanzo, a un tono mitico, di cui è paradigma quel dipinto del Caravaggio in cui un grande Angelo detta la Bibbia a San Girolamo. Marcello continua dicendo che lo scrittore ha la maledizione di sentirsi addosso alle cose, è presuntuoso e umile, se è un buon scrittore. Definisce il suo romanzo “ad alta densità biografica” (Vincenzo è anche il nome di suo padre). Le donne di queste storie, che se non sono raccontate semplicemente non sono, sono tutte imperatrici-schiave. Che allora era semplice pratica dell’essere donna. Sentendo Lella Costa leggere alcuni brani del libro, Marcello dice che uno scrittore migliora con un buon lettore. “Leggo a voce alta quello che scrivo. E, a volte, alcune parole si rifiutano di essere messe dove le metto”. In altri tempi mi è capitato di scrivere che Macello Fois è il più bravo degli scrittori sardi contemporanei, un’affermazione che mi rende “tifoso” di lui e della sua scrittura e quindi devo contenermi nel tesserne le lodi, per non apparire spudorato. Eppure qualche cosa debbo pur dire anche io della facilità con cui sembra tessere le sue storie, che hanno sempre un respiro con a sfondo spazi ampi di possibilità, l’incedere greve del gregge che mano a mano bruca l’erba della primavera e si sposta per stimolo della sete. Lentamente. Quei cieli di Supramonte dove le nuvole non vogliono fermarsi che l’attimo che serva ad essere fissato da un pittore dilettante. Frettolose d’andarsi a scaricare in mare. Come faccia, risedendo a Bologna, a scrivere di Sardegna in modo così “vero”fa parte del miracolo del suo essere, della sua magia. Un suo racconto pubblicato da poco nell’antologia “Lavoro vivo” ( Allegre edizioni) comincia così: ”A Raimondo Marceddu mettetelo in costume e lui è contento. Non chiedetegli perché. C’è una sicurezza dentro all’orbace, un’armonia tale che persino il suo corpo tozzo diventa bello avvolto da quell’involucro. E poi c’è tutto un altro orgoglio. Con l’abito dei padri pastori a Raimondo Marceddu gli sembra di valere di più, di avere più voce in capitolo. E’ cominciata quando era piccolo che lo portavano alla sfilata del Redentore sul carro a buoi col suo costume piccolino e la berritta piccolina e tutti a dire: guarda quella creatura!”. Impareggiabile, talmente bravo che è impresa impossibile perfino avere invidia di lui. Senza dubbio uno dei più grandi scrittori contemporanei che per comuni
care usa la lingua italiana.