di Alberto Mario DeLogu
Noi sardi, o almeno quelli tra di noi che hanno avuto l’immensa fortuna di crescere in una “bidda” del secolo scorso, godono e godranno, vita cerebral durante, di un enorme, incommensurabile vantaggio: il poter comprendere e parlare più di una lingua. Il multilinguismo (più correttamente la poliglossìa) è un segno importante dei nostri tempi, e come tutti i segni importanti, non è mai un segno neutro. La lingua, come sanno molto bene i figli degli immigrati che provano imbarazzo nell’ascoltare i propri genitori a colloquio con gli insegnanti, è un sistema di segni che sottende un sistema di potere. Fino agli anni ’60, complici studiosi come Simon Laurie, il quale sosteneva che “tanto peggio per un bimbo se è capace di parlare due lingue: la sua intelligenza e il suo sviluppo spirituale non ne usciranno raddoppiati, ma dimezzati”. La diglossìa, fin allora, era considerata una sconveniente iattura dalla quale liberarsi al più presto. Ai nostri genitori nati e cresciuti in bidda, una volta entrati a scuola o all’università, toccava l’incessante ed intimo lavorìo del “tradurre”, tra sé e sé, ogni parola, frase e pensiero dalla propria lingua madre all’italiano. Le occasionali imperfezioni di questo processo traspositivo erano (e sono tuttora) considerate errori da penna blu. Il colloquiale “ched’è”, splendida eufonizzazione che risale al latino “quid est”, diventa così oggetto di scherno ed immediato segnale di provenienza rurale e di censo inferiore. Di qui il progetto, tenacemente perseguito e ormai quasi completamente coronato da successo, di eradicare la lingua sarda e le sue varianti da ogni plaga dell’Isola. Eppure non è vero che la poliglossìa sia una iattura. Tutt’altro, a sentire gli psicolinguisti odierni: a partire dai canadesi Elizabeth Peal e Wally Lambert, che nel 1962 rovesciarono il pregiudizi dell’epoca, dimostrando che i bilingui posseggono maggiore flessibilità mentale, pensiero divergente e maggiori capacità d’astrazione, per continuare con un altro linguista canadese, Jim Cummins, il quale ha dimostrato che imparare una seconda lingua aiuta a migliorare anche la prima. È ormai tempo di ribaltare i paradigmi: dovrà essere il monolingue a sentirsi minoritario e culturalmente perdente. L’assioma ottocentesco dello stato-nazione abbarbicato ad una sola lingua ufficiale è ormai in crisi irreversibile. La maggior parte della popolazione mondiale è ormai poliglotta, e due terzi dei bimbi al mondo crescono in un ambiente multilingue. I giovani cresciuti in USA e Giappone, paesi di stretta osservanza monolingue – al pari, ahinoi, dell’Italia – si confronteranno nell’arena mondiale con un occhio bendato ed un braccio legato dietro la schiena. Il linguista John Edwards arriva a definire il monolinguismo “un’aberrazione, un’afflizione dei potenti”.C’è una, ed una sola frase che, nel Québec francofono, anche il più coriaceo monolingue anglofono deve imparare a pronunciare correttamente. La frase è: “Je m’excuse, je ne parle pas français”. Siamo all’alba di un’era nella quale, per un sardo, il dover confessare la propria stretta italofonia con un “iscujademi, no faedho in sardu” provocherà quel medesimo imbarazzo che, prima di lui, generazioni di sardofoni hanno provato nel doversi spogliare della loro lingua madre e rivestire della lingua egemone che proviene di là dal mare?