PIANETA ANTONIO GRAMSCI A VILLA SCHIABLER: SERGIO PORTAS A MILANO PER PRESENTARE IL SUO LIBRO


di Sergio Portas

Sul Micromega di aprile Angelo D’Orsi titola “Tutti pazzi per Gramsci” riferendosi anche al libro del britannico Peter Thomas, vincitore dell’ultimo premio Sormani (premia gli scritti che si riferiscono , nel biennio precedente, al pensatore sardo e a P.P.Pasolini) e “di autentico momento gramsciano si deve parlare, gettando lo sguardo ben oltre le frontiere”. Naturalmente non è me che deve convincere con questa tesi anzi, approfittando del cumulo di anniversari che toccano la Sardegna e L’Italia intorno al venticinque di aprile, nell’ordine: festa di liberazione dal nazi-fascismo, morte di Antonio Gramsci il ventisette aprile del 1937, sa die de sa Sardigna  (moti che portarono alla cacciata dei piemontesi con in testa il vicerè nel 1794) che si festeggia istituzionalmente il ventotto, ad Angela Masala che canta con me nel coro di Pino Martini Obinu, “Sa oghe de su coro”, è venuto in testa che tutto si potesse insieme rievocare a festa nell’ambito delle manifestazioni messe su dall’ANPI di zona otto a Milano. Quest’Angela che vi dicevo è di nascita pattadese e mamma sua è stata figura importante per il movimento comunista e femminista di zona fin dagli anni ’60, quando convinse il babbo di Angela a lasciare Pattada e venirsene in continente, “per l’avvenire dei figli”. A lei Francesca Camboni è intitolata l’attuale sezione del Partito Democratico di zona. Per dirvi di che tipo si tratti questa sua figliola, prima di arrivare a villa Scheibler il pomeriggio di domenica 29, se ne è andata in giro a strappare i manifesti fascisti che quelli di “Forza Nuova” avevano affisso sulle cancellate che delimitano il perimetro dello splendido parco della villa. Che purtroppo uno degli effetti di caduta culturale che dovremo scontare nei prossimi anni, che ci viene dal ventennio berlusconiano, è anche questo rigurgito nazi-fascista che fa aprire covi di cosiddetta cultura tipo “Casa Pound”, a questi ragazzi che non sanno né di Storia né di Costituzione. Mi direte che tutta Europa vive lo stesso fenomeno, eppure siamo lontani dal vedere che il sindaco di Berlino possa essere un ammiratore di Adolf Hitler, o che quello di Parigi si rifaccia alle dottrine del maresciallo Petain, nella capitale italiana amministra un sindaco che ha nostalgia delle politiche mussoliniane, come pure il presidente della Camera dei Deputati del resto e, fino a ieri, il Ministro della difesa. Alla cattiva politica va opposta quella buona, alla cattiva cultura si risponde con le idee diverse e ci si confronta. Gli scritti gramsciani offrono spunti sempre più feraci al proposito e quindi quel libretto che ho avuto modo di scrivere un paio d’anni fa (Antonio Gramsci, coscienza internazionalistica e subconscio sardo, ed. Media Tre) sembrava fatto apposta per l’evento. E allora quando Nino scrivendo alla madre chiede: “ La festa di san Costantino a Sedilo e di San Palmerio, le fanno ancora e come riescono? La festa di S. Isidoro riesce ancora grande?” (pag.58), noi del coro gli rispondiamo con “Assandira” e i suoi fantinos sedilesos che corrono “a caddu nudu chene sedda e ne briglia”. E alla sorella: “ Ho gustato assai il pane sardo, quantunque fosse ormai così duro da far sanguinare le gengive: però non aveva sofferto niente per il sapore”.(pag.74) cantiamo “Sa Cozzula”, pane duro di Fonni che negli “tzilleri” dell’epoca evocava ben altro tipo di turgida offerta : “A nde cheres de cozzula, Jubanna? Si no t’amus a dare pane lentu”. Per Sa die de sa Sardigna s’intona con Franciscu Mannu “Procura de moderare barones, chi si no pro vida mia torrades a pé in terra… e cominza sa passienzia in su populu a faltare”. Che pare scritto, quest’ultimo, per l’attuale presidente del consiglio italiano. Al Gramsci che stupisce la mamma col dirle che “devi sapere che tutte le domeniche mattina ascolto la messa (pag.55) facciamo sentire quella vera e propria canzone di chiesa che è Isettande, scritta dal nostro maestro di coro, e i suoi “Santu, santu” risuonano sotto le alte volte della villa a mò di cattedrale laica. Scrive Gramsci alla cognata: “E’ vero che in molti paesi della Sardegna esisteva prima della guerra (adesso non so più) l’unione di prova, cioè la coppia si sposava solo dopo aver avuto un figlio; in caso di infecondità ogniuno diventava libero (ciò era tollerato dalla Chiesa)” (pag.76). A Nino in risposta a questa sua cantiamo “S’aneddu”: “Oj est sa die più bella che su Sennore nos at muttidu”. E chi sa quale abbondanza di   dolci per il pranzo nuziale: “faremo un grandissimo pranzo con kulurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu sigada” (pag.16, in verità Gramsci questa festa se la immaginava alla sua uscita di galera). “E sona sona sonettu, sona po m’accumpangiai ca cantu custu muttettu… Laire lellaire lellaira, laire lellaire lellaira, laire lellaire lellaira, lellaira, lellaira”. Un altro sardo che lasciò la vita nel delirio nazifascista di quel periodo è stato Gavino De Lunas, nativo di Padria poeta e cantore originalissimo, il destino lo fa trovare in prigione a Roma per la sua attività di antifascista quando si trattò di uccidere, mediante fucilazione, dieci italiani qualunque per ogni soldato tedesco  saltato in aria a causa di una bomba partigiana: è l’eccdio delle Fosse Ardeatine. Di lui cantiamo “Tempus passadu”, “Ajò lassademi istare pensamentos chi m’ occhides…”. Per “No potho reposare” leggo quel passaggio di Gramsci che si riferisce alla possibilità di rientrare nel suo guscio “sardo”, nell’improbabile caso la moglie Giulia possa prendere in considerazione la possibilità di rifarsi un’altra vita, sepolto vivo lui nella galera fascista (pag.83). Come dice il ritornello: “Ca t’amo forte t’amo e t’amo,  t’amo”. “Pensende a tie soe donzi momentu”. “T’assicuro che a tie solu bramu”. “Ca t’amo forte t’amo…” . Scrive Gramsci quando era a Torino sull’”Avanti!”del 1918, organo del più grande partito di sinistra di allora a proposito della congiuntura economica isolana: “Anni terribili, che in Sardegna, hanno lasciato lo stesso ricordo del 1812, quando si moriva di fame per le vie e uno starello di grano  veniva clandestinamente scambiato col campo seminativo corrispondente” (pag.96). Nanneddu meu su mundu est gai, a sicut erat, no torrat mai. E’ invece ogni tanto cambia, anche se succede invero di rado nella vita di una generazione. “E unu manzanu mi so ischidau e app’agattau s’invasore e anche  fischia il vento, infuria  la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar, a conquistare la rossa primavera”. Anche il Coro oggi metteva al collo qualche cosa tinta di rosso, a me hanno prestato un fazzoletto della mitica “Brigata Garibaldi”, quella che quando passa “è la più bella e la più forte che ci sia e  il nemico fugge allor”. Mentre cantiamo dietro di noi , previo computer e videoregistratore, scorrono le foto sarde che Franco Sanna ha rapito dalla rete internet, col viso bello di Antonio Gramsci e il suo sguardo fisso sì “nel sol dell’avvenir”. La gente che è venuta a sentirci è commossa e questo sentire che è anche il nostro basta e avanza come mercede per l’impegno profuso. Da Pattada vino a quattordici gradi per mandare giù sattizzu e ricotta (questa per onore di cronaca ha subito la traversata del mare è si è inacidita), pane carasau e olive. Un pomeriggio indimenticabile, il Coro strumento di memoria della storia (non solo musicale) della Sardegna, in questo periodo di crisi epocale io penso che si debba seriamente ripensare se sia il caso di recuperare antiche parole d’ordine tipo “ a fora sos contnentales”, per farne progetto politico altro e alto. Certo è che in  Sardegna non si può continuare a subire passivamente la politica nazionale. Ma è pur vero che così non si può andare avanti neanche in Lombardia e in Abruzzo e in Toscana e e.  Ancora Gramsci: “Una razza” che ha dimenticato la sua lingua antica significa già che ha perduto la maggior parte dell’eredità del passato, della primitiva concezione del mondo e c
he ha assorbito la cultura (con la lingua) di un popolo conquistatore: cosa significa dunque più “razza” in questo caso? Si tratta evidentemente di una comunità nuova, moderna,che ha ricevuto l’impronta passiva o addirittura negativa del ghetto e nel quadro di questa nuova situazione sociale ha rifatto una nuova “natura” (pag.104). Ecco questa nuova natura deve , se è in grado, saper aspirare ad una nuova sovranità. Deve anche però trovare nuove espressioni di rappresentanza democratica perchè la voce del nuovo Popolo Sardo si esprima  in maniera forte e non equivoca, sia che a questo scopo usi l’inglese o l’italiano o il sardo.

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