di Donatella Percivale
C’era sempre a scuola uno che da grande voleva fare l’artista. L’artista? Sì l’artista. Che cosa stupida pensavi, mica ci guadagni i denari a fare l’artista. Di certo non si diventa ricchi, però può essere un modo per fare poesia. Un modo incomprensibile ai più, ma che in alcuni (rarissimi) casi, porta forte il profumo del mito. Negli anni ‘30, all’Istituto superiore per le industrie artistiche di Monza, il maestro di ceramica Umberto Zimelli scriveva: “Quando il giovane alunno Salvatore Fancello disegna c’è solo da guardarlo e lasciare fare”. A soli 22 anni dunque il dorgalese era già un mito. Lo era soprattutto per i suoi conterranei, Costantino Nivola e Giovanni Pintori, che negli stessi anni frequentavano tutti e tre l’istituto monzese. La sua inventiva nel saper tracciare segni sulla materia era considerata fuori dal comune. Un talento superiore a tutti, persino a Titino, che ammirato da tanta bravura annotava nei famosi taccuini: “Io non so se Salvatore quando entrò a Monza già custodisse la chiave dell’ordine del proprio discorso… Io mi diverto a mettere la penna in un punto qualsiasi del foglio di carta. Seguo la traccia nera e sottile… e vedo nascere le forme degli oggetti, animali domestici, cataste di legna e anche persone d’altri tempi”. Un mondo fantastico si dispiegava da quegli schizzi, ceramiche e terracotte: un bestiario onirico abitato da cinghiali, capre, gatte e tori, belve feroci o miti tartarughe, un tratto sottile, delicato, intimo e della cui preziosa bellezza si può godere negli eleganti spazi della galleria Capitol di Cagliari (fino al 31 dicembre) nell’omonima mostra dedicata a Fancello e Nivola. «La mia più bella mostra dell’anno» sussurra orgoglioso Dante Crobu, collezionista e grande estimatore dell’opera dei due sardi. Impossibile dargli torto. Crobu regala alla sua colta platea la visione di una quarantina di pezzi, dodici dei quali inediti. Quattro di questi appartengono a Fancello (tra cui “Il gatto” del ‘37 e il meraviglioso “Vaso con cinghiali” in terracotta colorata e graffita che sul fondo reca una misteriosa dedica), il resto sono inchiostri, disegni e persino uno dei famosi muri di lana di Titino provenienti da collezioni private (quello esposto è stato tessuto a Samugheo da Elisabetta Borra nel ‘64). Crobu sorride mentre divertito svela alcuni aneddoti sul ritrovamento delle opere. «È stato un amico ricercatore che, all’incirca due anni fa, si è imbattuto sui Navigli di Milano in un ambulante la cui motoretta era piena di tele e polverosi disegni. Provenivano dall’ISIA, l’istituto monzese, e durante un insolito sgombero l’uomo ne era venuto in possesso. Molto di quel materiale apparteneva ai due artisti, immagino che se lui non se ne fosse interessato sarebbe tutto finito al macero». Ma non c’è solo il caso ad avere guidato il fiuto di Crobu. Il trittico di disegni riferito ai famosi lettini ed esposto in galleria è stato acquistato durante una vendita all’incanto del Fondo Giorgio Soavi mentre un sostanzioso nucleo di dipinti e disegni nivoliani provengono da collezioni private esposte nella recente mostra sassarese organizzata a La Frumentaria per il centenario della nascita dell’oranese. «Titino lo incontrai alla fine degli anni ‘80 ad Oristano mentre passeggiavo in centro col mio amico Piero Piroddi – ricorda Crobu – lui era assieme al figlio Pietro e dopo un caffè decidemmo di andare a vedere insieme il Cristo di Nicodemo. Trovammo il convento di San Francesco chiuso ma grazie a una lauta mancia riuscimmo ad entrare; ricordo il viso contrariato di Nivola davanti all’immagine del Cristo. “Questo pezzo non credo sia molto antico” mi disse laconico. Fu impossibile fargli cambiare idea e in quel momento capii quanto la cultura americana gli fosse penetrata sottopelle. Ma a me, folgorato da quell’incontro speciale, andava bene anche così».