di Gianni Marilotti
Pubblichiamo qui di seguito il testo completo della relazione con cui Gianni Marilotti ha presentato la figura e l’opera di Alessandro Manzoni nel confronto con Andrea Vitali (che invece ha letto e commentato alcune pagine di Grazia Deledda) organizzato a Lecco il 28 aprile 2012, nel quadro de “Sa Die de Sa sardigna” festeggiata dai venti circoli lombardi della FASI.
Non è per niente facile parlare di Alessandro Manzoni qui a Lecco, a casa sua, in “quel ramo del Lago di Como che volge a Mezzogiorno”, senza cadere nell’ovvio o nella banalità. Su Manzoni poeta, tragediografo, romanziere, moralista, saggista e storico si sono profusi fiumi di inchiostro, su di lui si sono cimentati nella critica tutti i più grandi ingegni italiani e di tutto il mondo. Non potrei aggiungere niente, se non riepilogare e classificare la critica, ma così facendo mi esporrei al rischio di un tedio mortale.
Dunque, questa mia conversazione verterà su alcuni temi manzoniani che attraversano la cultura italiana e che sono particolarmente incidenti con la cultura sarda. L’occasione mi è offerta da due circostanze concomitanti: sono appena terminate le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia; siamo qui a celebrare Sa Die de sa Sardigna che, volenti o nolenti, ci impone una riflessione sul nostro modo di stare al mondo, all’interno della Repubblica italiana, all’interno dell’Unione Europea, dirimpettai di un mondo mediterraneo in ebollizione che pone, ci pone, una serie di domande che non possiamo più ignorare.
Di quel processo storico che portò all’Unità d’Italia e di quella formazione di una coscienza nazionale Alessandro Manzoni fu uno dei principali protagonisti, fino a meritarsi pienamente il riconoscimento di essere nominato senatore del nuovo Regno. Ufficio che il sommo poeta, oramai stanco, anziano e provato dai lutti familiari, svolse in coerenza con le sue convinzioni. Sono da ricordare, in quel suo Ufficio, la Relazione al Ministero della Pubblica Istruzione che ha come titolo Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla del 1868; il voto per Firenze capitale tappa verso il suo trasferimento a Roma; e, perché no, il suo rifiuto nel 1873 di vergare un’epigrafe per un monumento a Napoleone III, poiché, come è noto, l’imperatore si era opposto al compimento dell’Unità d’Italia e a Roma capitale. Episodio che chiude idealmente una parabola culturale iniziata negli anni del fervore illuminista e riformista, di esaltazione della rivoluzione francese, il tentativo di esportare quei valori in Lombardia e in Italia, fino alle campagne di conquista napoleoniche, le disillusioni di tanta parte degli intellettuali italiani, la consapevole partecipazione alla temperie romantica, la adesione alla rivista Il Conciliatore, fondata da Silvio Pellico, la successiva conversione e la maturazione di una visione storico-patriottica intrisa di valori attinti dalla morale cattolica, quel che politicamente significa adesione a quella componente del Risorgimento detta neo-guelfismo.
Di questa evoluzione, di questo percorso intellettuale, influenzato da fatti storici e vicende private, è testimonianza l’ode 5 Maggio. Il tema dell’ode è una meditazione sul potere visto nelle due prospettive:
In quella storico-politica la vicenda di Napoleone Bonaparte appare avvincente per la vertiginosa grandezza dell’ascesa e la repentina caduta. Motivo sviluppato nella prima parte dell’ode e che si articola fin dalla prima strofa in un quadro di opposizioni tra chi esercita il potere e chi lo subisce, subendone però anche il fascino:
Ei fu. Siccome immobile/ dato il mortal sospiro/ stette la spoglia immemore/ orba di tanto spiro.
E più avanti: Lui folgorante in solio/ vide il mio genio e tacque;/ quando, con vece assidua,/ cadde, risorse e giacque. Le vicende che vanno dalla sconfitta di Lipsia, ai Cento giorni e alla successiva disfatta di Waterloo non potevano essere espressi in modo più mirabile.
Dalle Alpi alle Piramidi,/ dal Manzanarre al Reno,/di quel sicuro il fulmine/tenea dietro al baleno. In questi versi le spettacolari imprese di Napoleone sono immortalate, scolpite nella memoria. Fu vera gloria? Si chiede il poeta ma non dà una risposta se non interlocutoria: Ai posteri/l’ardua sentenza. E qui si apre la strada ad una seconda prospettiva.
Quella storico-teologica nella quale la vicenda di Napoleone assume il carattere di un esempio, consentendo un confronto tra la gloria temporale e quella eterna, tra l’altezza superba dell’uomo e il suo abbassarsi di fronte a Dio, tra il suo sogno di potere e il bisogno di fede che egli avverte nella sconfitta. Stilisticamente rese attraverso una doppia comparazione:
L’onda su cui del misero,/ alta pur dianzi e tesa,/ scorrea la vista a scernere,/ prode remote invan;/ tal su quell’alma il cumulo/ delle memorie scese!
L’onda che schiaccia il naufrago si alterna con quella che, portandolo in alto, gli aveva dato la fugace illusione di una remota possibilità di salvezza.
Identico accorgimento viene utilizzato dal Manzoni nel Coro di Ermengarda dell’Adelchi allorché paragona la forza che incute terrore di Carlo Magno alla forza della vita che placidamente sovrasta la storia:
Come rugiada al cespite/ dell’erba inaridita, /fresca negli arsi calami/ fa rifluir la vita/ che verdi ancor risorgono/ nel temperato albor.
Manzoni condanna non l’agire umano in generale ma l’agire nell’esercizio del potere politico. Dalle vicende politiche durante e immediatamente dopo l’impero napoleonico ricava giudizi negativi sull’agire politico, quell’agire che aveva condotto i milanesi a una sconfitta dietro l’altra. Era quell’esercizio col quale nel 1814, all’epoca dell’uccisione di Giuseppe Prina, avevano ottenuto risultati esattamente opposti a quelli che si erano prefissi. Come è noto, Manzoni provò un gran turbamento per quell’episodio che portò all’uccisione del Ministro delle Finanze del Regno italico da parte della folla tumultuante, avvenuto, tra l’altro, a due isolati dalla propria abitazione. Delitto maturato in seguito ai tumulti provocati dal partito degli “italici puri”, ostili sia ai francesi che agli austriaci, di cui faceva parte anche Federico Confalonieri, ma che di fatto fece il gioco dell’impero asburgico.
Carlo Magno, Napoleone sono l’espressione dell’ambizione umana, due imperatori denudati di fronte all’irrompere del vero morale nella storia. Direi che qui siamo di fronte ad una prospettiva vicina ma con meno certezze ottimistiche rispetto alla filosofia della storia di Hegel il quale, vedendo Napoleone fare il suo ingresso trionfale a Jena ebbe a commentare con gran commozione di aver visto lo Spirito del mondo a cavallo in un punto concreto del mondo, quello Spirito del mondo che si rivela nel tempo storico. Con il suo tempo storico Manzoni sta facendo i conti. Siamo nel 1822: ha misurato la forza della Restaurazione e, di contro, la debolezza dei liberali, nonché l’impossibilità del papa di essere solo “Signor delle preci”, cioè guida spirituale della cristianità.
Mi sia consentita a questo punto una prima digressione in riferimento al preciso momento in cui in Alessandro Manzoni si fa strada la prima intuizione di una coscienza nazionale. La Sardegna in quello stesso periodo è sotto il governo paternalistico di Carlo Felice, migliore forse dei predecessori in fatto di amministrazione, ma tremendamente reazionario in materia di libertà. Spenti i fuochi del triennio rivoluzionario del secolo precedente, manifestatisi prima contro l’ammiraglio francese Truguet nel 1793, poi con la temporanea cacciata dei piemontesi da Cagliari e infine col fallimento della rivoluzione capeggiata da Giovanni Maria Angioy, la debole borghesia isolana, prostrata di fronte al riaffermato potere sabaudo, non vedeva altro miraggio che quello dell’accesso ai pubblici impieghi locali. Lo spirito della rivoluzione angioyana continuava qui e là a dare qualche bagliore ma non erano che gli estremi guizzi di una fiammata che si spegneva in mezzo alla notte sempre più profonda che avvolgeva gli spiriti. A partire dal 1827 e poi dal 1843 vengono pubblicati in Sardegna due periodici letterari Il Giornale di Cagliari e La Meteora che segnano una rottura con la vecchia letteratura dotta, arcadica e vuota di ideali nel tentativo di instaurare nel campo dell’arte e della vita una concezione positiva, a base regionale, etica e democratica. Ci vorranno diversi anni perché queste nuove idee si impongano, anche perché a ritardarne il cammino saranno ostacoli formidabili, primo fra tutti il prestigioso storico Giuseppe Manno che prima nel 1828, nell’opera I Vizi dei letterati, e in seguito nel 1866, ne La fortuna delle frasi, si scaglia contro gli scrittori di romanzi storici che egli descrive come “illustratori di anticaglie ai quali non dee concedersi alcuna spiritosa invenzione”. Eppure sarà grazie al lavoro degli storici, particolarmente fecondo intorno al 1840, dal Manno al Tola, dal Siotto-Pintor al Baudi di Vesme, che gli scrittori sardi troveranno quel lavoro preparatorio ed indispensabile per la nascita del romanzo storico e più tardi sociale.
Ma, per tornare al nostro Manzoni, nella prefazione al Conte di Carmagnola e nel Discorso sopra alcuni punti della storia Longobardica in Italia egli dimostra il suo avvicinarsi alle idee romantiche (argomento storico, rinuncia alle unità di tempo, luogo e azione; particolare funzione dei “cori”) mosso anche da ragioni morali e religiose nonché dall’obiettivo che assegna al poeta: quello non di inventare storie, ma di interpretare, intuire, ricostruire quanto la memoria storica non tramanda. Nasce da qui il passaggio dalla Tragedia al Romanzo preparato da accurate analisi sul vero storico. L’attenzione viene allora spostata dai grandi personaggi storici verso aspetti del passato di cui non si trova traccia nelle fonti ufficiali e perciò verso la vita delle masse che sembravano essere “senza storia” proprio perché non erano mai state soggetti attivi. Con il romanzo si attua uno spostamento dai fatti politici e militari a quelli della vita quotidiana. Dal linguaggio della poesia si passa a quello della prosa. In parte una ricerca e uno scandaglio di quelle culture subalterne vere destinatarie dell’intervento della Provvidenza nella storia.
È noto come Antonio Gramsci, che sul tema delle culture egemoniche e di quelle subalterne ha scritto pagine memorabili, non apprezzasse questo sforzo. Il suo giudizio sul romanzo storico del Manzoni è tranchant: Gramsci nega che quello manzoniano sia un vero romanzo nazional-popolare, gli contrapporrà Tolstoj, poiché vede nell’ideologia manzoniana il riflesso di quel populismo non nazional- popolare: “Il carattere aristocratico del cattolicesimo manzoniano appare dal compatimento scherzoso verso figure di uomini del popolo come fra Galdino, Renzo, Agnese, Perpetua e Lucia. I popolani (al contrario di frate Cristoforo, del Cardinal Borromeo, dell’Innominato e dello stesso don Rodrigo) non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali e il Manzoni è benevolo verso di loro, proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. Niente dello spirito popolare di Tolstoj, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo”.
L’atteggiamento di Manzoni verso i suoi popolani è per Gramsci l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana. Non c’è dubbio che grava su questo giudizio la sua analisi sul ruolo degli intellettuali italiani. Per Gramsci una classe politicamente emergente deve valersi di intellettuali organici alla valorizzazione dei suoi valori culturali, fino a imporli all’intera società. Invece gli intellettuali italiani, pur essendo sempre stati legati alle classi dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, non si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo del quale non hanno mai voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali.
In molte lingue – in russo, in tedesco, in francese – il significato dei termini «nazionale» e «popolare» coincidono. “In Italia – dice ancora Gramsci – il termine nazionale ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione è libresca e astratta, e l’intellettuale tipico moderno si sente più legato a Ippolito Pindemonte e Annibal Caro”.
Nascono anche da qui, secondo Gramsci, le insufficienze del Risorgimento e il suo carattere troppo elitario.
Io non credo di fare alcun torto a Gramsci, che ci ha insegnato che “la verità è sempre rivoluzionaria” e che ci ha aiutato ad acquisire uno spirito libero e critico, se dico che quel suo giudizio contiene una parte di verità ma non riesce a vedere un’altra parte di verità. Sempre secondo Gramsci, protagonisti di una letteratura nazional-popolare sono quegli autori europei (Victor Hugo, Emile Zola, Alexandre Dumas, Charles Dickens, Honoré de Balzac, oltre ai russi Tolstoj e Dostojewski).
A parte Honoré de Balzac che è coevo di Manzoni, tutti gli altri autori sono posteriori anche di svariati decenni rispetto al nostro Autore. A buon diritto il paragone andava fatto con colui che viene universalmente considerato il padre del romanzo storico. Mi riferisco a Walter Scott che con i suoi romanzi attinti alla vecchia Scozia ha inaugurato il genere storico: La sposa di Lamermoor, Ivanhoe, Quentin Durward, Il Talismano, scritti tutti pochi anni prima che Manzoni iniziasse a lavorare al suo romanzo Fermo e Lucia e che hanno influenzato indubbiamente lo scrittore lombardo.
Rispetto al Fermo e Lucia, che più che un primo abbozzo del capolavoro manzoniano oggi la critica tende a considerare come un romanzo diverso e autonomo, I Promessi Sposi sono un rimaneggiamento non solo formale ma strutturale: muta il titolo, il nome dei personaggi, la distribuzione della materia, la partitura dei capitoli. In primo luogo nel Fermo e Lucia è ancora manifesta un’impronta saggistica e la narrazione si ispira ad un dichiarato intento pedagogico che deriva dalla concezione militante propria del gruppo romantico del Conciliatore. La massa dei documenti storici (ispirati dall’Historia Patriae del canonico Giuseppe Ripamonti e dall’Economia e Statistica di Melchiorre Gioia) prende il sopravvento sulla linearità del racconto. In secondo luogo vi è nel Fermo e Lucia il ricorso a effetti romanzeschi alla Walter Scott, attraverso la caratterizzazione antitetica dei personaggi con una tendenza all’accentuazione pittoresca e al contrasto violento di vizi e virtù. Caratterizzazioni e limiti interamente superati ne I Promessi Sposi. A tal punto da far dire a György Lukács, filosofo marxista e critico letterario, nel saggio Il romanzo storico, che Manzoni, seppur con un solo romanzo, ha superato per più aspetti Walter Scott e racconta l’aneddoto che quando Manzoni a Milano confidò a Scott di essere un suo discepolo, quest’ultimo gli rispose che in questo caso I Promessi Sposi erano la sua opera migliore. Scrive Lukács di Manzoni: “La sua capacità inventiva per l’intreccio, la sua fantasia nel rappresentare caratteri delle più diverse classi sociali, la sua sensibilità per l’autenticità storica nella vita interiore ed esteriore dei personaggi sono qualità che egli possiede in grado almeno pari a Walter Scott. Anzi proprio nella ricchezza e nella profondità con cui sono delineati i caratteri, nella completa utilizzazione dei grandi contrasti tragici per delineare la psicologia dei personaggi, Manzoni è perfino superiore”. I limiti, se ci sono, sono da ricercare nella storia italiana, periferica e marginale, poco adatta per un vero romanzo storico che possa trascinare il lettore e in cui i contemporanei possano rivivere il proprio passato.
La riflessione manzoniana sulla storia accompagna l’intera biografia intellettuale dello scrittore. Vista nel suo insieme, l’evoluzione manzoniana si presenta come passaggio dalle forme neoclassiche ai generi prediletti dai romantici; da una lingua e da un repertorio di motivi e figure legati alla tradizione dotta a una materia, la storia, e a una soluzione linguistica, il fiorentino parlato e vivo, che favoriranno la comunicazione con un pubblico allargato. In due momenti di crisi – 1814-15, in cui ci fu la fine del regime napoleonico, e durante la prima ondata rivoluzionaria del 1820-21– Manzoni scelse, pur con la cautela che gli era abituale, una posizione politica schierandosi a favore di quei gruppi patriottici che aspiravano all’indipendenza, ma preferibilmente senza insurrezioni popolari. Le liriche Aprile 1814, Il proclama di Rimini, Marzo 1821 sono una testimonianza di questa evoluzione.
Quegli insuccessi portarono Manzoni al suo pessimismo storico, documentati prima dalle varianti dell’Adelchi e Pentecoste poi da I Promessi Sposi. In effetti l’ideazione del romanzo fu accompagnata da una puntigliosa volontà di esatta documentazione – che sbalordì Goethe che ritenne il romanzo un’opera storiografica – e di aderenza ai fatti narrati. In ciò Manzoni intendeva distinguersi da Walter Scott il quale aveva sostenuto, nella “Lettera di dedica” premessa all’ Ivanhoe, l’opportunità di una certa libertà d’invenzione e anche qualche anacronismo per adattare la materia trattata alla mentalità del lettore moderno. Niente di tutto questo in Manzoni. Innanzi tutto, al contrario delle Tragedie, e staccandosi dal gusto medievale dei romantici, Manzoni sceglie un periodo storico insolito: il Seicento. Periodo scelto per ragioni politiche e ideologiche. La perdita dell’indipendenza del Ducato di Milano e l’arretratezza feudale dell’Italia rappresentavano due negatività emblematiche di una società che le nuove classi borghesi intendevano cambiare attraverso graduali riforme. Nel romanzo si avverte l’eco dei dibattiti che la cultura illuministica aveva sviluppato: l’attacco contro la filosofia dogmatica mosso dal punto di vista della nuova scienza sperimentale; le nuove leggi della scienza economica e della scienza medica vengono contrapposte alla demagogia politica e alle superstizioni.
Argomenti oggetto di specifica trattazione nell’opera storica Storia della colonna infame, che in origine doveva essere un capitolo del Fermo e Lucia, ma che, successivamente rielaborato, uscì come opera autonoma deludendo molti che si aspettavano un secondo romanzo manzoniano. L’argomento è costituito dai processi milanesi del 1630, di cui furono vittime il barbiere Giangiacomo Mora e il commissario della Sanità Guglielmo Piazza, accusati dalla voce popolare di aver fatto gli untori per propagare la peste mediante unguenti e polveri venefiche.
Lo stesso clima da colonna infame emerge – e il paragone non sembri irriverente – dalle pagine dell’autobiografia del cagliaritano Vincenzo Sulis, uno dei protagonisti del triennio rivoluzionario sardo, asceso ad una fittizia gloria in seguito ai fatti legati al respingimento dell’assedio francese di Cagliari e poi in occasione del momentaneo allontanamento dei piemontesi dalla stessa città e successivamente vittima di quel clima di sospetto e di caccia alle streghe che consegue alla sconfitta dei moti angioyani. L’autobiografia scritta tra il 1832 e 1833 durante il suo esilio a La Maddalena e consegnata allo storico Pasquale Tola non fu da quest’ultimo pubblicata per ragioni di prudenza ma lasciata in eredità alla municipalità di Sassari dopo la sua morte. Ciò che il Sulis racconta delle sue vicende processuali in quei tempi grami è la cronaca, anche se non sempre veritiera, della giustizia ingiusta, degli intrighi di corte, del voltafaccia di molti ex rivoluzionari, la storia di un’amministrazione della giustizia al servizio del potere e delle procedure processuali che violavano qualsiasi diritto alla difesa.
Due momenti del romanzo I Promessi Sposi hanno colpito in ogni tempo i lettori sardi del romanzo: mi riferisco al secolo in cui è stato ambientato e l’episodio della peste. La dominazione spagnola è l’elemento che accomuna la storia lombarda a quella sarda e sebbene, anche di recente, si è tentato di riscattare quel periodo – alludo al lavoro di Francesco Manconi, che ritiene che la Sardegna sia entrata nella modernità proprio in quegli anni – è diffusa la coscienza che si è trattato di un periodo buio, caratterizzato da miseria, arretratezza, soprusi di ogni genere. Un secolo buio nonostante qualche bagliore di luce come l’istituzione delle Università di Cagliari e Sassari. Con il passaggio alla Casa di Savoia non è che le sorti dei sardi siano cambiate di molto né che le nostre aspirazioni abbiano trovato appagamento. Nell’immediato i lettori sardi del Manzoni non hanno potuto apprezzare la finezza dello scrittore lombardo di parlare “a nuora perché suocera intenda”, cioè di sbeffeggiare il potere arrogante degli spagnoli invece di quello asburgico contro il quale è palesemente indirizzato il suo capolavoro. Negli anni ’40, cioè nel periodo in cui I Promessi Sposi escono nella versione definitiva, le classi dirigenti sarde, gli intellettuali, sono presi da un fervore filo-monarchico che sfocerà nella “perfetta fusione” e nella speranza di avere rappresentanza nelle sedi del potere del Regno.
È interessante osservare che un anno dopo l’uscita de I Promessi Sposi, Carlo Varese, un ligure con molti legami con la Sardegna, pubblicava Preziosa di Sanluri, un romanzo storico, ispirato da Scott, in cui sono narrati i fatti della figlia del Visconte di Sanluri, scampata alla sconfitta di Macomer (1478) e dopo molte peripezie caduta prigioniera del Viceré Don Nicolò Carroz, il quale la fa condannare al supplizio dell’acqua fredda nel capo di Sant’Elia a Cagliari. Lo scopo che il Varese si prefigge è patriottico; al Visconte di Sanluri fa dire: “I popoli non devono tollerare altro giogo fuor quello che si impongono con le proprie mani”. La stampa isolana – come ci dice Egidio Pilia – non colse questo richiamo pregnante all’autodeterminazione, ma si fermò a rilevare la calunniosa invenzione di Carlo Varese che in questo, come in altri romanzi, descrisse la figura di una singolare razza di donne sarde, “Sas accabadoras”, che avevano la funzione di accompagnare i vecchi verso un dolce trapasso. Segno di un atteggiamento psicologico della maggior parte degli intellettuali, vergognosi della propria tradizione e tutti tesi ad uguagliar l’italianità nel mito. Chissà se avessero potuto leggere Accabadora di Michela Murgia!
Nei titoli dei romanzi storici che vennero pubblicati in Sardegna a partire dalla fine degli anni ’40 – Adelasia di Torres di Vincenzo Brusco Onnis, Leonora d’Arborea di Vittorio Angius, Vincenzo Sulis di Antonio Baccaredda, Elodia o la repubblica di Sassari di Marcello Cossu – il periodo storico in cui le storie sono ambientate è prevalentemente il Trecento e se ne comprende la ragione. Fu quello il tempo in cui la Sardegna ha perso la propria indipendenza; o, come nel caso di Antonio Baccaredda, il triennio rivoluzionario in cui fallì il tentativo di riacquistarla. Ma il romanzo che più di tutti si ispira a I Promessi Sposi è Anchita e Brundanu di Gavino Cossu, che narra l’amore contrastato di due giovani appartenenti a due famiglie rivali ambientato nel Seicento sardo.
È singolare che mentre in Italia, a partire dal 1860, il genere letterario del romanzo storico è in piena decadenza, assistiamo in Sardegna ad una vera fioritura. La ragione va forse spiegata con considerazioni di ordine politico. Mentre in Italia le condizioni politiche che avevano fatto sorgere il romanzo storico erano cessate col raggiungimento dell’Unità, in Sardegna i motivi di malessere e di ingiustizia continuavano e continueranno a lungo, mentre appariva sempre più chiaro che con la “perfetta fusione” non solo non avevamo raggiunto gli agognati sogni ma eravamo sprofondati in un tunnel senza speranza. Questa forma letteraria sarà in fondo una forma di reazione spirituale contro le ingiustizie del nuovo stato di cose creatosi in Sardegna dopo il 1848 e non è che l’espressione del disagio e della disillusione dei sardi dopo il primo esperimento di vita unitaria.
Per quanto riguarda la peste del Seicento, essa sconvolse la Sardegna non meno che il resto d’Europa. È un evento così importante della nostra storia da aver lasciato tracce in ogni campo della vita sociale, religiosa e culturale. Dal 1656 ogni anno il 1° maggio si svolge la processione del martire romano sant’Efisio, oggi diventata la principale sagra della Sardegna che attira turisti da tutto il mondo, per onorare il santo protettore dei cagliaritani contro la peste. Il capitolo de I Promessi Sposi che racconta le vicende della peste a Milano non poteva non suscitare commozione e una forte empatia da parte dei lettori sardi.
Ma ci sono altri due passaggi del capolavoro manzoniano, più profondi, più intimi, che credo tocchino la psicologia dei sardi, che comunque a me hanno colpito fin dalla prima lettura del romanzo. Nel capitolo ottavo quando Renzo, Agnese e Lucia fuggono dal loro paese per recarsi rispettivamente a Milano e a Monza e “Silenziosi, con la testa voltata all’indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne”. Lucia è presa da una struggente mestizia fino a piangere segretamente:
“Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi cresciuto tra voi se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si meraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più s’avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messi gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti”.
C’è qualcosa da aggiungere a questa prosa che è poesia pura? Forse, che il Manzoni si è dimenticato di aggiungere due parole: emigrati sardi.
L’altro passaggio lo troviamo nel capitolo diciassettesimo. Renzo in fuga da Milano, ricercato, braccato, stanco, terrorizzato. Sperso per una selva ove non vede traccia di coltura umana. È indeciso se abbandonare quella strada per tornare indietro e chiedere ricovero in qualche locanda rischiando però di essere denunciato e arrestato. Quando tutto sembra perduto, in un crescendo pathos:
“Cominciò a sentire un rumore, un mormorio d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama è ‘l’Adda!’. Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de’ pensieri e svanire in gran parte quell’incertezza e gravità delle cose”.
Questo brano a noi sardi è molto familiare, non tanto per il richiamo al fiume, fiumi che da noi si riducono a smorti rigagnoli in tanta parte dell’anno, quanto per il richiamo al significato ancestrale dell’acqua. In Sardegna il culto delle acque è antichissimo e radicato nella nostra tradizione. Manzoni per descrivere lo stato d’animo di Renzo di fronte al rumore dell’acqua usa i termini “fratello”, “amico”, “salvatore”, noi li avremmo declinati al femminile “mammas”, “pippia de maju”, un richiamo alla madre terra che con la sua acqua sorgiva allatta i suoi figli. Il culto della Dea madre (Ghea Mater – Terra madre) che si rifà al culto di Demetra, dea della terra e delle acque sotterranee. Sono 30 i pozzi sacri rinvenuti in Sardegna, ma probabilmente sono molti di più. Santa Vittoria di Serri, Santa Cristina di Paulilatino, Santa Anastasia di Ardara, Su Tempiesu di Orune sono i più famosi. Luoghi sacri, popolati da spiriti e protetti da forze misteriose. Come non provare un senso di empatia di fronte ad un passaggio poetico come quello proposto da Alessandro Manzoni?
Per concludere, Alessandro Manzoni è stato un monumento della cultura europea e uno dei padri nella formazione di una coscienza nazionale. Oggi questa nazione è attraversata da venti di ogni dove che non so dove ci porteranno e non è nemmeno escluso che i Sardi vogliano intraprendere la strada di una piena sovranità. Ma, in un caso come nell’altro, vale a dire o rafforzando le basi di un vivere comune o scegliendo la strada di una rivisitazione del patto fondativo, Alessandro Manzoni ci ha insegnato che il vero storico non sta nella storia raccontata dai libri ma va ricercato nelle pieghe della vita quotidiana di un popolo, in quelle espressioni che non trovano spazio nella trattatistica ufficiale ma che per essere pienamente portata alla luce ha bisogno di una narrazione nuova, fresca e coraggiosa che non inventi nulla ma dia voce a chi non l’ha mai avuta.