LA CRISI GLOBALE DEL LAVORO COLPISCE OVUNQUE E IN MODO IRREVERSIBILE … E ALLORA SIAMO ANDATI A CANTARE SOTTO LA TORRE

la protesta dei ferrovieri in Stazione Centrale a Milano


di Sergio Portas

E allora siamo andati a cantare sotto la torre. Questi giorni mi sto rileggendo il libro capolavoro di Giovanni Lilliu: “La civiltà dei Sardi” (ERI ed. 1980), un po’ perché non so bene in quale modo migliore possa rendergli l’omaggio che merita per l’impegno di tutta la sua vita a favore della nazione sarda , un po’ perché sono quasi trent’anni da che l’avevo impattato tra i libri che il mio babbo riteneva indispensabili per la conoscenza che noi nativi si dovesse avere per l’isola nostra. Dice a pag.193: “Visto nella sua espressione essenziale, quale si può pensare all’origine, il nuraghe a “tholos” presenta la figura di una torre rotonda, dal profilo verticale a tronco di cono. Le torri, levate anche sino a più di venti metri, sono costruite al modo “ciclopico”…”. E poi continua distinguendo nuraghe da nuraghe e parlando di “domus de janas” e “pozzi sacri” e “tombe di giganti” continuando nella sua opera di cantore-cultore dell’identità sarda. A questo proposito scrive di lui Giulio Paulis: ”Se è vero che l’identità è un costrutto di elementi simbolici che, pur nascendo da realtà socio- culturali e naturali, hanno carattere astratto e servono a forgiare, connessi tra loro, un gruppo umano che si identifica in essi, Lilliu nel selezionare questi simboli o archetipi tra i vari possibili e nel descriverli secondo una determinata prospettiva, non li ha semplicemente rappresentati, ma li ha plasmati e messi in essere”. Ora che altro segno distintivo dell’essere popolo distinto dagli altri sia quello di parlare una propria distinta lingua è cosa troppo pacifica perché si stia a sottolinearlo ulteriormente. E che anche che la lingua sarda sembri inesorabilmente destinata a scomparire “sic stantibus rebus” (se nessuno non fa niente per invertire la deriva) nel giro di decine e non centinaia di anni è altrettanto noto. E’ seguendo quest’ordine di pensieri che mi è balenato per la mente quanto di resistenziale ci sia nel riproporre da parte di “Sa Oghe de su Coro”, il coro sardo-meticcio diretto da Pino Martini Obinu, un repertorio fatto essenzialmente di canzoni sarde. Quale avamposto barbaricino che non ha nessuna intenzione di farsi sommergere dalla marea montante dell’italiano ( inteso come lingua parlata e cantata) a differenza di quei nostri antenati Iliesi che furono dapprima sterminati dai romani ( un vero e proprio genocidio: in due tornate furono uccisi la metà dei 55.000 barbaricini che dovevano abitare quella che più o meno è la provincia di Nuoro, secondo Livio 12.000 nel 177 a.C. E 15.000 nel 176, erano tutti maschi adulti,  da “La Latinizzazione linguistica della Barbagia”, di Massimo Pittau, linguista) e poi colonizzati linguisticamente. Riproporre “Procura de moderare” e “Ballu Furiosu” e “Sa Cozzula” e ancora “Laire lellaira” e “Ballu torrau” e altre decine di canzoni sarde in sardo è atto resistenziale alla barbarie che si sta perpetrando: la scomparsa di un popolo, di una nazione. Che la Sardegna stia attraversando un momento storico tra i più difficili della sua storia, anche economica, è sotto gli occhi di tutti. Sui telegiornali di ieri in prima serata è andata la rabbia venata di disperazione degli operai dell’Alcoa, tra bandiere dei quattro mori e caschi sbattuti sul selciato, col rogo del tricolore che ha avuto la prima pagina della “Padania” bossiana. Non che l’Italia goda di periodi di benessere diversi, la cura dei “professori” che le va propinando Mario Monti è, ad oggi, pagata per lo più dallo strato più povero della popolazione e il suo “ministro del lavoro” tenta di fare strame di diritti che i lavoratori italiani si sono conquistati da più di quarant’anni. Che se c’è libertà di licenziare “i mercati” ci premiano. Poi se dall’oggi al domani le ferrovie dello stato chiudono le tratte di treni notturni e mettono letteralmente sul lastrico ottocento famiglie fa parte del destino cinico e baro che il capitalismo cosiddetto liberale fa pagare agli sfortunati di una “roulette russa” a cui siamo tutti seduti, nostro malgrado. Che anche costoro non ci stiano a subire passivamente questo stato di cose e che alcuni abbiano, da mesi, occupato la torre di avvistamento della stazione centrale milanese fa parte delle notizie quotidiane del telegiornale. Ci sono le tende di chi aiuta questi sventurati che si sono mutati a bandiera d’ingiustizia poche centinaia di metri a seguire il binario 21. E le cucine da campo ( anche se il comune di Pisapia manda venti pasti caldi al giorno). Molti sono gli artisti e gli scrittori che sono venuti a portare la loro testimonianza di solidarietà. Tra i fischi dei treni che salutano quelli della torre e lo sferragliare delle rotaie che impediscono solo il pensiero d’una notte di quiete. E anche il canto del coro che stasera usa a cassa armonica un cielo miracolosamente presidiato dalla falce della luna, si disperde coi rumori delle locomotive. Ma il pensiero dei giovani sardi che non hanno neppure più lo sbocco dell’emigrazione in continente, come lo abbiamo avuto noi e i nostri padri, il pensiero di quei disperati lassù su una torre che ci ricordava un nuraghe, ci ha mosso: e allora siamo andati a cantare sotto la torre.

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *