di Massimo Cossu
Il “popolo degli emigrati sardi”, quello dei Circoli per intenderci e della Federazione che li coordina da anni organizzando e promuovendo alcune delle battaglie nel bene comune dell’unica Madre che ci appartiene: la Sardegna. Mi viene in mente la Continuità Territoriale, oppure la promozione culturale che da l’opportunità a tanti artisti noti e meno noti di “andare e tornare” oltremare con costumi tradizionali a vanto di una terra, la nostra, che si sente sempre più maltrattata e sfruttata. Questo “popolo di emigranti” oggi vorrebbe far parte di quella gente in difficoltà nell’isola, con una solidarietà fraterna con coloro che sono chiamati a lottare per mantenere la dignità di uomini e di Sardi. Mi piacerebbe – e speriamo non sia un’utopia – che il “popolo degli emigrati” si unisca al “popolo delle partite Iva”, che da mesi è sul piede di guerra contro Equitalia. Oppure ai dipendenti di Alcoa che sta per mandare a casa centinaia, se non migliaia, di lavoratori. O al “popolo dei trasportatori” che in questi giorni ha deciso di bloccare strade e porti. Infine a quel popolo che ha costituito un Movimento quasi a voler dire di essere “come un gregge senza pastore”, senza prospettiva, senza un domani. Per non dimenticare il “popolo dei laureati” o quelli “senza una speranza” destinati ad abbracciare una valigia per partire. C’è il “popolo dei paesi che si svuotano”, che vivono lo spopolamento con la mancanza di coraggio per reagire. E ce ne sono di “popoli” all’interno di quel “nostro popolo”, perché le battaglie di questa gente, sono anche le nostre. O non siamo anche noi un popolo, diviso in Associazioni, coordinati da una Federazione, che vuole risollevare le tradizioni e la storia di un’isola lontana? Non siamo anche noi, figli della stessa Madre? E non mi si venga a dire che il problema della Sardegna lo risolva la Sardegna e che i circoli e le Federazioni non c’entrano nulla con queste lotte, con questi scioperi, con queste decisioni che non hanno nulla di culturale, di gastronomico, di folkloristico, di musicale. Un popolo che non lotta (in modo pacifico) e non ha cultura è pronto alla disperazione ed io non voglio pensare alla Sardegna come ad un popolo di disperati. Fa parte del mio carattere, del carattere di tutti – o quasi tutti – i sardi. Credo fortemente che questo nostro “popolo dell’emigrazione” possa aiutare tutti questi popoli in perenne conflitto di ricerca. Chi, come noi, non ha vissuto almeno una volta, prima di partire, quel frastuono di ribellione che ti porta a dire: “ intanto non c’è speranza… intanto è tempo perso… intanto parto… poi ritorno…” Chissà! Chi è, che non è in grado di aiutare quei popoli che quotidianamente cercano un riscatto per non andare via e non sentirsi totalmente vinti da questa battaglia che altro non è che “la battaglia” di tutti i Sardi, di chi è rimasto e di chi non è rimasto; di chi ha visto e di chi non ha voluto vedere; di chi ha cercato e di ha voltato le spalle. Chi è stato il più coraggioso? Chi ha lottato o chi ha perso la speranza? Chi è rimasto o chi è partito? Io non voglio perdere la speranza e non voglio nemmeno sapere chi soffre di più tra chi rimane e chi parte, ma non voglio neanche che il “popolo dell’emigrazione sarda organizzata”, faccio parte dell’Esecutivo FASI, possa far finta che non esistano questi “popoli”. Non voglio pensare che questo “popolo dell’emigrazione” si senta parte indifferente di chi oggi chiama e chiede aiuto, di chi oggi china il capo e si rassegna. Io non mi voglio sentire indifferente a questo mio popolo; non voglio nemmeno pensare che se veramente esiste una sola Madre dove i suoi figli sono liberi, dovunque dispersi, devono coraggiosamente riscattare il bene comune che gli appartiene.