di Maria Letizia Pruna
Alcoa se ne va. La notizia non può coglierci di sorpresa, poiché la società lo aveva annunciato già da qualche anno, anche se gli ultimi accordi – strappati come sempre in emergenza – prevedevano il proseguimento dell’attività produttiva fino alla fine del 2012. A giugno, invece, con un anticipo di sei mesi, Alcoa fermerà l’impianto di Portovesme, acquisito nel 1996 dalla società a partecipazione statale ALUMIX (gruppo EFIM). Dopo quasi 16 anni, la multinazionale americana leader mondiale nella produzione di alluminio lascerà il Sulcis, dove ha prodotto una parte dei suoi utili, come ha ricordato la Presidente del Consiglio Regionale Claudia Lombardo, beneficiando di un risparmio stimabile in circa 2 miliardi di euro, grazie alle tariffe agevolate per l’energia (Il Sole 24 ore), e consumando risorse ben più pregiate, come l’ambiente e la salute delle comunità locali. Se un’azienda vuole andarsene non si può costringerla a rimanere, è libera di produrre dove trova le condizioni migliori. Due anni fa, esattamente il 21 dicembre 2009, Ken Wisnoski, uno dei vice presidenti di Alcoa, ha firmato un accordo con la società mineraria saudita Ma’aden per sviluppare nella nuova zona industriale di Raz Az Zawr, sulla costa orientale dell’Arabia Saudita, impianti per la lavorazione di bauxite e alluminio per circa 7 milioni di tonnellate annue, con un investimento di 10,8 miliardi di dollari. Il Presidente e CEO di Alcoa, Klaus Kleinfeld, ha definito l’accordo una di quelle opportunità che capitano una volta ogni generazione («This joint venture is a once-in-a-generation opportunity for Alcoa») : “Stiamo creando un complesso integrato per la produzione di alluminio che sarà il più avanzato e il più efficiente del mondo”. Non è solo pubblicità: la joint venture Ma’aden-Alcoa potrebbe diventare il principale fornitore mondiale di alluminio primario, allumina e prodotti in alluminio, grazie ai bassi costi e all’accesso ai nuovi mercati in espansione del medio-oriente. Il complesso industriale nascente può disporre di infrastrutture strategiche come porti, ferrovie, energia pulita e a basso costo, realizzate dal governo dell’Arabia Saudita. La bauxite, la materia prima per la produzione di alluminio, sarà estratta dalla miniera di Al Ba’itha, nel nord del paese, e sarà trasportata agli impianti di trasformazione attraverso ferrovia. Il Ma’aden-Alcoa Project prevede l’integrazione di diversi impianti industriali: oltre alla miniera di bauxite, la raffineria, la fonderia, il laminatoio. Le ultime due saranno operative dal 2013 e le prime due dall’anno successivo. Il 17 ottobre scorso, pochi mesi fa, Alcoa e Ma’aden hanno perfezionato l’accordo per la realizzazione della seconda fase del progetto, che procede molto celermente. Dunque Alcoa se ne va e sa bene dove andare, e lo ha annunciato da alcuni anni. Non è una sorpresa e non è un segreto: le intenzioni di una multinazionale – i progetti, gli investimenti, le strategie di mercato, ecc. – si possono leggere sui loro Rapporti annuali e trimestrali pubblicati sui loro siti. Ma per quasi 16 anni Alcoa è stata qui e prima che vada via dovremmo essere in grado di presentarle il conto, il che implica almeno due condizioni: la prima è saper calcolare il consumo dell’ambiente e l’inquinamento prodotto in 16 anni a Portovesme e dintorni; la seconda è avere istituzioni e norme che non solo consentano tali richieste ma addirittura le impongano, a tutela dell’interesse pubblico. Il timore è che non ci sia nessuna delle due condizioni e che ad Alcoa non sia mai stato fatto sottoscrivere alcun impegno in termini di ripristino ambientale. Se così fosse sarebbe davvero un crimine: avere fatto passare i decenni senza dotarsi di una legislazione adeguata né istituzioni che possano porre vincoli e impegni per l’insediamento di attività industriali, mentre l’interesse politico si è concentrato soltanto sull’offerta di incentivi e finanziamenti agevolati per rendere attrattivi (!) i nostri territori, è il più grave segno del nostro sottosviluppo, non solo economico ma prima di tutto istituzionale. Non avere strutture tecniche in grado di misurare nel tempo il consumo del nostro ambiente e i danni alla salute (o non averle mai utilizzate per queste finalità), per poter imporre limiti tempestivi alle attività industriali prima ancora che chiedere risarcimenti (tardivi), è un crimine contro la società e non semplicemente una inadeguatezza del sistema pubblico. Alcoa, come molte altre multinazionali, lega la sua immagine nel mondo anche al riconoscimento della “sostenibilità” dei suoi progetti: ciò rientra nel fiorente mercato delle certificazioni, ma ha un peso nel prestigio della società. L’approccio sostenibile di Alcoa, su cui la compagnia investe molto in termini di immagine, prevede bonifiche e interventi per favorire una chiusura “sostenibile” degli impianti. Si potrebbe dunque concordare subito con Alcoa (non tra sei mesi e neppure tra un anno o due quando sarà ormai lontana) gli interventi di clean up and restore prima che vada via dal Sulcis. Se Alcoa si trattiene da noi ancora per sei mesi, è bene che cominci a pulire subito (e dovrà continuare ben oltre la scadenza che si è data). Nei prossimi mesi, l’impianto di cui è decretata la chiusura e sul quale la società non fa investimenti significativi da molto tempo non avrà una produttività rilevante. Gli ultimi sei mesi di presenza di Alcoa nel nostro territorio sarebbe più utile dedicarli ad avviare immediatamente i piani di bonifica dell’area. In altri contesti in cui opera, a cominciare dagli Stati Uniti, Alcoa ha provveduto a bonificare diversi siti in cui erano insediati i suoi impianti. I piani di bonifica sono stati definiti in collaborazione con lo Stato Federale e le municipalità locali, come nel caso dello “sforzo cooperativo di successo”, celebrato pubblicamente nel 2007 da Alcoa, per ripulire e ripristinare il Comfort Point/Lavaca Bay, a metà strada tra Houston e Corpus Christi, in Texas. Questo sito presentava una contaminazione da mercurio rilasciato dallo stabilimento di produzione Point Alcoa Inc.’s Comfort alla fine degli anni ‘60, che ha causato gravi danni ambientali e la chiusura della pesca in una porzione della baia. Alcoa ha speso circa 110 milioni di dollari per una serie di progetti nella baia e intorno ad essa, durati 15 anni, per ripulire e ripristinare le condizioni ambientali. L’impegno del Gruppo Alcoa ad attuare i piani di ripristino è incorporato – si legge nei suoi documenti – in un accordo siglato nel 2005 che riguarda l’assunzione di responsabilità rispetto ai danni arrecati alle risorse naturali di quel sito. In ragione di tale accordo, Alcoa ha pagato anche le spese sostenute da una serie di istituzioni pubbliche (Environmental Protection Agency, National Oceanic and Atmospheric Administration, Texas Commission on Environmental Quality, Texas General Land Office, Texas Parks and Wildlife Department, US Fish & Wildlife Service) per la valutazione dei danni e la definizione delle azioni di recupero ambientale. Abbiamo mai fatto qualcosa di simile in Sardegna? Potremmo cominciare adesso, subito, cercando di recuperare ciò che è possibile (a cominciare dai 300 milioni che Alcoa deve restituire all’Italia), facendo leva soprattutto sull’interesse di Alcoa a mantenere una buona immagine nel mondo in termini di rispetto dell’ambiente, a prescindere da specifici accordi: il territorio del Sulcis, il suo mare e le sue campagne, e la salute dei suoi abitanti, non valgono meno della baia texana. Tra il 2010 e il 2011 gli utili netti di Alcoa sono passati da 254 milioni di euro a 611 milioni di euro: più che raddoppiati. La società è in buona salute – ci fa piacere – e deve restituirci la nostra. Non servono gesti populisti inutili e ridicoli, non serve che il Presidente della Regione o del Consiglio Regionale minaccino di incatenarsi ai cancelli degli stabilimenti: ci
ò che serve è autorevolezza e determinazione, alte competenze tecniche e buone alleanze anche a livello internazionale (a cominciare dall’Unione Europea) da mobilitare immediatamente, per esigere il rispetto che meritano la nostra terra e le nostre comunità, e costruire da oggi un modo molto diverso di fare industria (e sviluppo) in Sardegna.