Dati allarmanti dal mondo della scuola sarda. Un quarto dei nostri ragazzi abbandona precocemente gli studi, senza conseguire nemmeno un diploma superiore. Non è una novità, ma a metà degli anni 2000 la tendenza sembrava invertita: gli abbandoni scolastici, sempre alti in Sardegna, calavano. Merito anche di un’azione di governo regionale che finalmente metteva mano al problema, sia pure con mezzi limitati. Il che si inseriva, tra l’altro, in un momento di recupero di responsabilità politica e di senso di appartenenza collettiva emersi con la mobilitazione contro il nucleare del 2003 e manifestatisi poi nell’elezione di Renato Soru alla presidenza della Regione.
Quel momento si è concluso. I sardi sono stati ricacciati – soprattutto da se stessi – nel labirinto dei processi di identificazione subalterni, nella percezione di sé come portatori congeniti di miseria e incapacità. Sarà un caso che siano tornati a peggiorare anche gli indici di abbandono scolastico?
Il problema di fondo è che la scuola in Sardegna è governata secondo paradigmi e con mezzi largamente incompatibili e insufficienti alle nostre necessità. La rigidità del “sistema scuola” italiano da noi è aggravata da un’adesione pedissequa ai modelli ministeriali, che negli ultimi anni, con la Gelmini a capo del ministero, sono stati largamente deficitari e penalizzanti e da noi drammaticamente devastanti. A tale situazione non vi si è opposta alcuna vera resistenza, a livello politico. Giusto presso gli operatori della scuola si è tentato di agire in qualche modo, ma troppo timidamente, troppo dentro gli schemi sindacali italiani.
La politica sarda e i sindacati hanno fallito miseramente, in questo ambito, e portano tutta intera la responsabilità di esiti tanto disastrosi. Questo vero e proprio tradimento del mondo adulto verso i ragazzi è tanto più grave in quanto li priva non solo degli stimoli e degli strumenti per formarsi, ma anche di una visione di sé e di un contesto generale in cui sperare di poter investire proficuamente la propria formazione.
Perché mai un ragazzo sardo dovrebbe impegnarsi a studiare, magari affrontando viaggi da pendolare faticosi e snervanti, seguendo corsi che gli risultano alieni da sé, dalla propria esistenza materiale e intellettuale, oppure debolissimi dal punto di vista pedagogico e formativo? A che pro? In nome di cosa, se poi quello stesso ragazzo si vede circondato da pessimi esempi umani e politici, da evocazioni continue di crisi insolubili, da tristezza, deprivazione, senso di abbandono e di impotenza?
I problemi della scuola richiamano e riassumono in sé tutte le altre questioni aperte. I nostri deboli e patogeni processi di identificazione collettiva, le nostre carenze infrastrutturali, il rifiuto di dotarci degli strumenti economico-finanziari per poter attivare investimenti congrui nei settori nevralgici dell’istruzione e della ricerca, la marginalizzazione dell’irrisolta questione linguistica (che con l’abbandono scolastico ha molto a che fare), la devastazione del tessuto produttivo e sociale dell’Isola. Anche la questione di genere è legata a questo problema: la discrepanza tra gli abbandoni femminili (pochi) e quelli maschili (molti) si riflette sul maggiore grado di istruzione delle donne sarde e contrasta in termini ormai inaccettabili con le differenze nelle possibilità occupazionali, di carriera e di rappresentanza ancora persistenti.
Questo è il quadro complessivo in cui il tasso crescente di abbandono scolastico si inserisce coerentemente. È così assurdo pensare che un recupero di consapevolezza, una riappropriazione di noi stessi, della nostra storia, di un senso possibile alla nostra esistenza, anche in termini politici, potrebbero avere conseguenze benefiche anche in questo ambito? Io credo di no.
La scuola richiede un enorme sforzo prima di tutto morale e politico, poi anche progettuale ed economico. Non ci sono scuse. Le risorse vanno recuperate laddove esistono. E deve essere avviato un processo di acquisizione di sovranità sull’intera filiera dell’istruzione, affinché tanto le responsabilità, quanto le possibilità di pianificazione rispondano finalmente alle esigenze del nostro territorio. Purtroppo è lecito dubitare che l’attuale classe politica sarda sia in grado – posto che si renda conto dell’emergenza – di assumersi questo compito essenziale. Dovrà essere la società civile, insieme alle forze intellettuali e politiche più dinamiche e non compromesse con i giochi di potere dello status quo, a farsi carico di un mutamento di paradigmi e di prospettiva non più eludibile. Per i nostri giovani, per noi tutti.