di Paolo Pulina
Quello che segue è il testo completo della relazione preparata da Paolo Pulina per il dibattito congressuale ad Abano Terme, poi sintetizzata a braccio dall’autore davanti alla platea dei delegati.
Il significato di questo contributo. Intendo mettere in evidenza l’importanza della cultura, di quella che Gramsci chiamava “sovrastruttura”, come base per sviluppare qualsiasi azione di coinvolgimento di gruppi impegnati nel raggiungimento di un obiettivo di miglioramento sociale.
Il documento a stampa con le nostre tesi congressuali (scritte sia in italiano che in sardo) è una grande conquista dal punto di vista dell’elaborazione dei programmi della FASI, che ha raggiunto una matura visione complessiva dei problemi. Il Congresso è un momento in cui si votano i componenti del gruppo dirigente e quindi è giusto che le proposte partano dalle tesi puntualmente esposte nel documento sottoposto per tempo all’analisi e alla discussione dei Circoli e già oggi meritoriamente messo a disposizione dei delegati come volume a stampa.
Uno degli argomenti che mi propongo di approfondire è questo: i Circoli della FASI, interclassisti e intergenerazionali, hanno aiutato molti sardi residenti a (ri)scoprire le proprie radici ma poi spetta ad essi coltivare queste radici: si può essere in tanti a condividere per eredità una stessa cultura, ma poi uno deve decidere di impegnarsi in un Circolo piuttosto che, mettiamo, in una associazione elitaria di “distinzione” sociale.
Una premessa. Il critico Stanley Fish, nel volume che nella traduzione italiana (Einaudi, 1987) ha per titolo C’è un testo in questa classe? L’interpretazione nella critica letteraria e nell’insegnamento, fa un’affermazione che mi piace riportare perché, minimamente adattata, serve a far comprendere il senso del mio intervento in questo nostro consesso, in questo nostro contesto.
Scrive Fish: «La ragione per cui io posso parlare e supporre di essere capito da voi, è che io parlo dall’interno di un insieme di interessi e di finalità, ed è in rapporto ad essi che io presumo che verranno intese le mie parole. Se ci sarà una comunicazione, o una comprensione, ciò non avverrà perché io e voi condividiamo un linguaggio, nel senso che conosciamo i significati delle singole parole e le regole per combinarle, ma perché siamo condivisi da un modo di pensare, da una forma di vita, che ci coinvolgono in un mondo di oggetti già al loro posto, di obiettivi, scopi, valori, procedure, ecc.; ed è in riferimento alle caratteristiche di questo mondo che di necessità tutte le parole che qui saranno pronunciate potranno essere intese.
La comunicazione è possibile perché – quando ciò accade – siamo condivisi da una stessa cultura, della quale la lingua, come tutti gli altri sistemi di segni, fa parte. A partire da questa prospettiva, acquista una rilevanza fondamentale l’attenzione che si rivolge, in istanza di descrizione del funzionamento segnico, ai concetti di contesto e di circostanza d’uso, unitamente alla nozione di pertinenza. Nessun atto comunicativo si darà fuori contesto, e ogni contesto presuppone degli usi, quindi una pertinenza, che dipenderà da un punto di vista, che permetterà di identificare come pertinenti, ai fini della comprensione, alcuni tratti dell’oggetto conosciuto piuttosto che altri».
Vediamo le nostre questioni. Come è noto, la Legge statale n. 482 del 15 dicembre 1999, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, all’art. 2 stabilisce: «In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i princìpi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo».
In un interessante saggio pubblicato sul n. 3/2011 della rivista “Studi Zancan. Politiche e servizi alle persone”, Paolo De Stefani si occupa di “Immigrati e diritti culturali: una strategia per progettare l’attuazione di un diritto umano”. Riprendo alcune sue considerazioni generali che si possono applicare anche al contesto dei nostri discorsi su come progettare il futuro delle comunità di sardi emigrati, cioè fuoriusciti, dal perimetro dell’isola di origine e residenti, per ragioni di lavoro e/o di studio (quindi non per diporto), in altra parte del restante territorio nazionale (quindi anche in Sicilia, tanto per intenderci).
Breve e (credo) simpatica digressione. Parlo di residenza non per diporto perché non mi emoziona la sorte di miei corregionali che hanno i soldi per vivere per periodi più o meno lunghi, putacaso, a Portofino (costoro non possono essere considerati emigrati; sono esponenti del mondo dorato degli “emirati sardi uniti”…). A proposito di chi può essere considerato, per legge, “emigrato” e chi no, non voglio tenermi per me una informazione curiosa. La Legge Regionale n. 35 dell’ 8 novembre 1988 della Regione Sicilia “Interventi urgenti nei settori dell’ emigrazione e del lavoro”, all’articolo 1 “Individuazione dei beneficiari delle provvidenze a favore degli emigrati previste dalla legge regionale 4 giugno 1980, n. 55, e successive modifiche” recita: «1. All’ articolo 1 della legge regionale 4 giugno 1980, n. 55, modificato con l’ articolo 2 della legge regionale 6 giugno 1984, n. 38, è aggiunto il seguente comma: “Agli effetti della presente legge sono considerati emigrati i cittadini italiani residenti da almeno due anni in un comune del territorio della Regione prima della emigrazione, che si rechino all’ estero o nella restante parte del territorio nazionale per esercitare stabilmente o stagionalmente qualsiasi forma di attività lavorativa autonoma o subordinata ad esclusione di quella connessa a un rapporto di impiego presso pubbliche amministrazioni. Sono altresì considerati emigrati i familiari a carico dei soggetti sopra indicati”».
Questo significa, per esempio, che un vigile di origini siciliane impiegato, mettiamo, presso il Comune di Como, per la Regione Sicilia non può essere considerato emigrato. Mi sembra una posizione non condivisibile.
Torniamo alle argomentazioni di Paolo De Stefani. Il quale scrive: «L’approccio ai diritti culturali è generalmente “difensivo”, teso cioè a tutelare la specificità culturale di una minoranza. Questo approccio è presente anche nelle norme internazionali ed interne (in Italia, si pensi alla legge n. 482/1999 sulle minoranze linguistiche) in materia di minoranze nazionali. L’idea di “cultura”, in questo contesto, risulta collegata alle nozioni di “nazione” o “popolo”. La dimensione della cultura come scelta individuale esce quasi del tutto oscurata». Ed ecco il perno del ragionamento dello studioso: «Una prospettiva imperniata sui diritti umani di tipo culturale accentua invece la dimensione individuale o della “scelta”, pur senza cancellare, naturalmente, la dimensione di “iscrizione”: in altre parole, l’individuo sceglie, ma “dentro” una tradizione. […] La cultura non si “eredita” semplicemente e senza sforzo: si (ri)scopre e si sceglie. Spesso si osserva che le tradizioni culturali diventano parte significativa dell’identità dei singoli e delle collettività in quanto sono oggetto di scoperta o di riscoperta: si riscoprono le proprie radici etniche, linguistiche, ecc. ».
Il caso dei Circoli dei sardi emigrati. I nostri Circoli hanno aiutato molti nostri corregionali non residenti a scoprire o a riscoprire le proprie radici e hanno avuto in premio la fidelizzazione attraverso la tessera annuale. Ma, se uno di noi vuole che le radici fruttifichino, bisogna che si impegni a coltivarle in prima persona; per utilizzare le parole di De Stefani, una volta che ci è ritrovati o scoperti “dentro” una tradizione e una identità storico-culturale, bisogna operare una scelta; occorre fare uno sforzo.
In sostanza, io Stato promulgo – in maniera “difensiva”, direbbe De Stefani – una legge nazionale come quella che tutela le “minoranze linguistiche storiche”, e tra queste comprendo anche le popolazioni che parlano il sardo. Ebbene, se poi tu sardo, residente o emigrato, non ti dai da fare per concretizzare la conservazione e la valorizzazione della lingua che la tua tradizione storico-culturale ti ha affidato, la tua scelta è chiara: a te dell’identità culturale della Sardegna non importa niente. Ebbene, a me che invece ho scelto volontariamente di fare il povero missionario (da missione quasi religiosa e da mission della FASI) per realizzare, individualmente e collettivamente, questo compito storico, a me – ripeto – permetterai che importi ben poco del percorso divergente rispetto al mio per il quale hai voluto optare.
Allo stesso modo, se io a Pavia o in qualsiasi altra sede apprendo che sei un sardo emigrato e ti parlo dell’opportunità di iscriverti a un Circolo della FASI (caratterizzato, come si può intuire, da una base sociale interclassista e intergenerazionale: anzi, questo è uno dei suoi tratti distintivi!) per solidarizzare e poi magari per collaborare direttamente con le iniziative che i nostri Circoli attuano in maniera costante per (uso una schematica formula onnicomprensiva) “tenere alto l’onore della nostra isola” e tu mi dici che vuoi rimanere esclusivamente impegnato in un’associazione elitaria tipo Rotary, Lions, Kiwanis e via elencando, io rispetto la tua scelta ma deve essere chiaro che a te del passato, del presente e del futuro della nostra isola di origine ti interessa ben poco: salvo l’idea, forse, di organizzare un gemellaggio con analoga associazione operante in Sardegna.
Ho evitato volutamente di fare l’esempio (sarebbe stato troppo forzato) di un sardo emigrato iscritto a un’organizzazione che ha il nostro stesso acronimo. La sua risposta avrebbe potuto essere: «Ma io sono già iscritto alla F.A.S.I.!» e noi giù a spiegargli che per noi questo acronimo significa dal 1994 Federazione delle Associazioni Sarde in Italia; non Federazione Arrampicata Sportiva Italiana (Wikipedia registra solo questo organismo e non cita il nostro!): non Federazione Autonoma della Stampa Italiana; e neanche Federazione Anti Sfiga Italiana (se uno non ci crede, consulti Google…).
In estrema sintesi, facciamo pure in modo capillare campagne di sensibilizzazione e di proselitismo per la nostra F.A.S.I., ma mettiamo anche in conto che un sardo emigrato non necessariamente è interessato a unirsi a noi solo perché abbiamo ereditato la stessa tradizione, anzi può succedere che con calcolata determinazione voglia evitare a ogni costo questo “embrassons nous”.
Quindi, con l’apporto rivitalizzante dei giovani – nel numero realisticamente raggiungibile, non nella ottimistica misura che ci possono suggerire il mito e l’utopia – cerchiamo di mantenere ferma la passione, dentro i locali fisici dei circoli, di chi da parecchi decenni i circoli ha contribuito a fondarli e a farli vivere: gli anziani e i vecchi non devono essere emarginati.
A me piacerebbe molto che i nostri soci anziani e vecchi dedicassero il loro tempo libero a leggere regolarmente i libri presenti nelle nostre biblioteche di circolo (in generale, peraltro, molto ricche di testi) ma non li possiamo obbligare.
Una cosa però ad essi possiamo chiedere: fate i libri viventi che raccontano la storia di quel circolo. Voi lo potete fare meglio di qualsiasi libro della biblioteca. Mettetevi a disposizione per qualche ora, a turno, come viene fatto in Danimarca (ma un esperimento c’è anche a Milano), come libri “aperti” di una biblioteca umana, vivente. Raccontate la storia del circolo, quella del vostro paese, quella della Sardegna…
A voi, a noi auguriamo lunga vita perché – finché ci sarete, finché ci saremo – i nostri circoli non chiuderanno. Almeno come “biblioteche viventi” che magari un domani possono anche invogliare qualcuno a sfogliare i libri depositati negli scaffali. In ogni caso, in questo modo recupereremmo anche una caratteristica della nostra cultura sarda che per secoli è stata esclusivamente orale. È stato scritto: «Nella cultura orale si sa solo ciò che si ricorda e l’imperativo è dunque quello di trasmettere il sapere in modo tale da facilitare il più possibile la memorizzazione. Si spiegano così le ripetizioni (tipiche dei proverbi popolari), le tipizzazioni e gli elenchi caratteristici della tradizione orale. La cultura orale è inoltre coinvolgente, dialogica, interattiva e ha un orientamento concreto, che si riflette nel frequente uso di metafore».
E che metafora è più bella di questa in uso in Africa dove la cultura orale non ha cessato di essere dominante? Dice un vecchio proverbio africano: «Quando muore un vecchio, muore una biblioteca». Ai nostri soci anziani auguriamo lunga vita, come quella dei longevi e superlongevi (centenari e supercentenari) studiati da Luca Deiana per il progetto AKeA (“A Kent’Annos”); per gli ultimi decenni gli chiediamo di continuare a coltivare le radici sarde trasformandosi in “libri aperti”. Possono essere loro i più efficaci testimonial di un avvenire non incerto per i circoli della F.A.S.I. e in generale della possibilità di salvaguardia dell’identità sarda fuori della Sardegna; una salvaguardia, beninteso, che non deve essere fine a sé stessa ma che deve essere orientata a dare un contributo per un futuro migliore (unu mezus tempus benidore) della nostra isola.
Un progetto culturale pro su tempus benidore. In chiusura voglio ricordare che il contributo dei sardi emigrati come insieme di proposte concrete per migliorare la situazione economica e sociale dell’isola viene spesso ignorato dai sardi residenti.
Basta pensare che gli atti del Primo congresso nazionale sardo tenuto a Roma in Castel Sant’Angelo dal 10 al 15 maggio 1914 non sono mai stati ristampati. Toccherà storicamente ai sardi emigrati di oggi: 1) ristampare quelle pagine; 2) organizzare un convegno che sia occasione perché le intelligenze sarde fuori dell’isola possano confrontarsi su progetti concreti finalizzati allo sviluppo delle condizioni dell’isola sia dal punto di vista materiale che culturale; 3) pubblicare tempestivamente gli atti di questi incontri di studio; 4) proporre questi atti alla discussione in Sardegna.