di Vitale Scanu
A partire dal secolo XV, Ales, una delle diocesi più piccole e povere d’Italia, ha registrato una serie di illustri vescovi. Nobili figure di patres pauperum, accessoriati di grandi valori intellettuali e di una dedizione appassionata per i poveri in un’intensa attività sociale, autentici pastori che seppero traghettare il loro popolo dal regime feudale a quello sabaudo. Sono pagine memorande, in un periodo estremamente difficile, quelle scritte dai vescovi di Ales, per la dedizione totale ai diseredati e la vicinanza incondizionata al popolo. Sotto la loro guida, Ales diverrà un punto di riferimento esemplare per altre diocesi. Carestie ricorrenti, usura, peste, malaria e “impossibili imposizioni” feudali, come i tristi cavalieri dell’Apocalisse, imperversavano nella Marmilla, puntuali e onnipresenti, svenando le comunità, al punto da costringere i vassalli, quasi tutti contadini e pastori, a svendere i pochi beni e il proprio bestiame per pagare i tributi imposti dal feudatario, che era il marchese di Quirra. Non restava che emigrare lontano. Gli abitanti dei villaggi non avevano scampo, non esistendo ancora i moderni ammortizzatori sociali: o pagare o morire. “L’episodio più tragico si verificò ad Ales – durante l’infernale carestia del 1540, ripetutasi nel 1655 e 56 -. Una madre, impazzita per la fame, dopo aver invocato invano l’elemosina girando con i due figli tra i villaggi altrettanto affamati, uccise il figlio minore e si cibò della sua carne”.
Vediamo alcune di queste luminose figure di vescovi.
– Pietro Garçia (1484-1493), laureato a Parigi, dopo se anni come vescovo di Ales fu promosso a vescovo di Barcellona, allora una delle sedi più importanti della cristianità.
– Pietro Fragus (1562-1566), pure laureato alla Sorbona di Parigi, poi docente all’università di Huesca, consigliere del regno d’Aragona, ascoltato teologo al Concilio di Trento, proposto vescovo di Ales dal re di Spagna Filippo II, preferì questa sede vescovile, vicino ai poveri, a un impiego nella Curia pontificia a Roma. Il vescovo di Cagliari Parragues de Castillejo lo aveva in grande considerazione: “Es muy docto y muy virtuoso”. Attuò un’intensa opera di moralizzazione del clero e organizzò la cultura e l’ordinamento delle tradizioni popolari.
– Lorenzo Nieto (1608-1613) era laureato in teologia e abate del monastero di Montserrat in Catalogna. Nominato da re Filippo III vescovo di Ales, divenne poi arcivescovo di Oristano e di Cagliari. Il visitatore reale Martin Carrillo dice che Nieto è “un prelado muy religioso, gran theologo y predicator, muy esperimentado en negocio, tiene mala residencia, porque Ales està en un desierto con sola la iglesia cathedral y algunos pocos canonigos”.
– Michele Beltran (1638-1640), un abate benedettino, vescovo di Ales in un periodo disastroso per l’economia territoriale (Oristano saccheggiata dai francesi, grave carestia 1637-1638, usura al 200%), attuò per primo, nel breve periodo del suo episcopato, l’idea del Parlamento del 1624 di aiutare i contadini con un sistema creditizio di mutuo soccorso (montes de piedad), idea peraltro proposta dagli Stamenti sardi. I montes frumentari o granatici “rappresentano la prima istituzione creditizia della storia moderna dell’isola”.
– Durante l’episcopato di Serafino Esquirro (1680-1684), “nel 1675, Ales ebbe la prima scuola elementare gratuita, presso la chiesa di S. Sebastiano. Primo insegnante fu il (canonico) dottor Simone Spiga di Zeppara”.
– Didaco Cugia (1683-1693), diede grande incremento ai monti granatici. La cattedrale, costruita sui resti di una chiesa precedentemente edificata anche col contributo di Donna Violante Carroz, marchesa di Quirra, al tempo del trasferimento della sede della diocesi da Usellus ad Ales (1182 circa), fu distrutta da un incendio. Uno dei due campanili, il 29 aprile 1683 crollò per cause che non furono mai accertate coinvolgendo nella caduta la chiesa e distruggendola quasi comple-tamente. Nel 1648 inizia la nuova costruzione con gli architetti Francesco Solari e Domenico Spotorno, sul modello del duomo di Cagliari. La nuova Cattedrale, quella che attualmente ammiriamo, venne consacrata dal vescovo Cugia il 9 maggio 1688.
– Al vescovo Masones Nin (1693-1704) si deve la costruzione del grande seminario di Ales (che verrà in seguito aperto anche ad alunni laici) e poi quello di Oristano, città di cui nel 1704 divenne arcivescovo. Col clero diocesano, il vescovo Nin sostenne una forte opposizione al governo dei Savoia ed ebbe un durissimo scontro col primo viceré Saint Remy. Col riconoscimento dell’autorità sabauda da parte del papa si giunse a un compromesso. Gli si deve la prima regolamentazione e la grande diffusione dei monti frumentari.
– Giuseppe Maria Pilo (1761-1786), un gigante di santità, di cultura e attività in difesa dei poveri nel periodo delle riforme settecentesche. Era l’ideale del vescovo riformista, unanimemente apprezzato, anche dal governo sabaudo. Svolse la propria attività riformatrice in sintonia con il ministro Bogino, la cui tesi era “Religiosità nuova, coordinata col potere civile”. Aprì il seminario pure agli alunni poveri del popolo, istituendo i corsi di lettere, di morale, di musica; fondò due borse di studio per due giovani che dovevano frequentare l’università di Cagliari per imparare l’italiano, da insegnare poi in diocesi, dove i contadini, i pastori e gli artigiani parlavano solo in sardo, tant’è che, per dare maggiore penetrazione alla sua opera di pastore volle scrivere il catechismo in sardo: “Dottrina cristiana in versu ch’imbìada a is amadus diozesanus suus su Illustrissimu e Reverendissimu Segnori D. F. Giuseppi Maria Pilo”.
Due i “pilastri” dell’attività del vescovo Pilo: * alzare il livello culturale e la moralità del clero; * l’apostolato sociale per il rifiorimento dell’agricoltura. “La diocesi di Ales, con i suoi 77 monti frumentari, diventa un modello per l’intera isola, operando come una sorta di laboratorio per la nascita della più importante istituzione cre-ditizia all’agricoltura sarda in epoca moderna… Solo a questo punto le autorità civili sarde e piemontesi presero a interessarsi del fenomeno”.
Incredibile la sua solidarietà umana verso le classi più umili, segnatamente nell’inverno durissimo del 1779. Così nella descrizione degli storici. “L’implacabile fame sospingeva dai villaggi turbe cenciose verso le città, alle porte degli episcópi. Quello di Oristano divenne l’albergo dei poveri, che raggiunsero il numero di tremila. Mons. Pilo vendette e impegnò mobili e argenteria per alimentare la folla dei poveri che quotidianamente cresceva alla porta del suo palazzo. Egli operò meraviglie di umanità, donando ai bisognosi tutti li suoi averi, ed a tal punto giungendo di elargizioni, che dopo aver nutrito giornalmente per più di due mesi un migliaio circa d’indigenti, terminò egli stesso per abbisognare degli altrui soccorsi”. Scrisse una lettera pastorale ai sacerdoti, ricordando “quanta misera gente, che teneramente amiamo, si presenta a folla tutt’i giorni, anche dai luoghi più lontani, chiedendo ansiosi qualche soccorso alla loro indigenza”. La lettera e il comportamento del vescovo erano un duro monito ai sacerdoti perché ricordassero una regola fondamentale: “Noi altri Ecclesiastici non siamo padroni de’ redditi de’ nostri benefìci, ma soltanto amministratori”. I parroci dovevano aiutare tutti, indistintamente, rifiutando la cosiddetta carità restrittiva (o selettiva: aiutare solo i buoni), “senza guardare in essi, come forse accadrà, i loro cattivi costumi, ed una vita malamente regolata, o sia per la loro malizia o per la loro oziosità”. Un duro faccia a faccia con sacerdoti benestanti ma avari, che piangevano miseria, dopo aver ricevuto dai fedeli in tempi migliori tanti regali e decime.
(I corsivi sono tratti da uno studio storico del prof. Stefano Pira)