di Michela Murgia
Io non c’ero in piazza sabato. Non è che avessi da fare, no: proprio non volevo esserci. Non sono carente in indignazione, anzi, sono indignata fino al midollo. Ma la fase della messa in scena di rabbie impotenti l’ho superata da un pezzo e non la voglio più supportare. La liturgia dell’indignazione non mi basta più. Cinque anni fa avrei spaccato vetrine anch’io, fracassato macchine, afferrato estintori e urlato di tutto esattamente come ogni donna e ogni uomo vorrebbero fare quando ti rubano il futuro e senti che non ci puoi fare assolutamente niente. Oggi riconosco in quel rituale il sapore di una recita ciclica e anche per questo nessuno mi convincerà mai più a fare la marionetta di un sistema che con la mia rabbia si è tonificato e nella mia violenza ha trovato conferme. Non è la furia comune, il tamburo sincopato, le facce dipinte e le vetrine spaccate che possono in qualunque maniera spiegare o modificare la condizione di ingiustizia sociale in cui viviamo immersi ora. Le cose che si ottengono con queste modalità sono evidenti: offrire nascondimento ai violenti con la propria sola presenza, porgere strumenti di propaganda ideologica a quanti ti fotograferanno stravolto, stanco e incazzato e metteranno sotto la tua rabbia una scritta che non condividi, ma soprattutto regalare ai media di regime l’opportunità di screditare la giusta rabbia sociale attraverso l’enfasi esasperata dei singoli – e inevitabili, facciamocene una ragione – gesti distruttivi. C’è un’altra conseguenza, se possibile peggiore delle tre messe insieme, ed è regalare a quelli che scendono in piazza la sensazione di star agendo per cambiare le cose urlando gli slogan in faccia a una schiera di disgraziati padri di famiglia in divisa pagati da fame e più impauriti di loro. A queste condizioni io non mi voglio più indignare.
Voglio fare atti politici. Ho fatto un atto politico andando sabato pomeriggio a San Sperate dallo scultore Pinuccio Sciola. Abbiamo parlato di donne, di uomini, di madonne e di padri. Qualcuno si è incazzato e agli amici fuori dall’incontro ha detto che ero una femminista degli anni 60, come se fosse un insulto. Qualcuno non ha avuto il coraggio di prendere la parola in pubblico, ma poi è venuto di nascosto a dirmi “grazie, io non so parlare, ma volevo dire di me quello che hai detto tu di te”. San Sperate è un paese così: il sabato pomeriggio si lasciano gli orti, i pescheti e gli aranceti per andare lungo le strade a guardare immagini di grandi fotografi o dentro alle chiese ad ascoltare canti e parlare del contenuto dei libri. Pinuccio, anche se non vuole sentirselo dire, è la prova vivente che un uomo solo, se ragiona al presente plurale, ha in sé le potenzialità per offrire strumenti di cambiamento al modo di pensare di una intera comunità. E’ uno che non aveva finito neanche le elementari e oggi, dopo aver cambiato il volto del suo paese guidando alla scultura e alla pittura le mani dei suoi giovani e dei suoi bambini, fa cantare il calcare e il basalto in ogni parte del mondo. Se quell’uomo è mai sceso in piazza, lo ha fatto sempre per mostrare ai suoi paesani in che modo i muri delle loro case potevano diventare pagine di civiltà e bellezza che chiunque avrebbe potuto fermarsi a leggere. Pinuccio sa che chi vede la bellezza su quei muri crescerà pensando di esserne degno e nessuno lo convincerà mai più che può accontentarsi di un mondo brutto o mediocre. Pinuccio Sciola ha fatto questa enorme differenza politica usando solo l’arte, quella cosa misteriosa che spesso ha giudicato i giudici, chiesto vendetta per gli innocenti e mostrato al futuro quel che il passato ha sofferto, così che non lo si è più dimenticato. Quando si fa questo, qualunque ne sia la forma, i potenti hanno paura. (J. Berger Scheiwiller)
Ha fatto questo la costruzione della retorica dell’indignato? Se non ha fatto questo, non ha fatto niente.
Per un’unico e non banale motivo non posso condividere il tuo pensiero: gridare da soli la propria rabbia, tra le pareti di casa propria, è un conto. Condividerla insieme ad altri,costruttivamente, riunendo le idee le forze e le energie in nuove energie e incanalandole in una condivisione di intenti plurale, mi sembra un atto molto politico, con le facce dipinte e i tamburi sì, anche di questo si ha bisogno. Costruire insieme le basi per un futuro nasce anche da questo io credo. Nasce dalla fiducia di sapersi e vedersi in tanti sotto lo stesso cielo grigio e opprimente e sapere di non essere i soli a provare lo stesso smarrimento. Poi il tutto va elaborato, e questo, nei vari gruppi sta già avvenendo.
Scendere in piazza è ancora un atto politico Michela, esattamente come il tuo e quello di Sciola. Sta a noi vederci e interpretarci come protagonisti costruttivi del nostro cambiamento.