di Ornella Demuru
In 950 città del mondo sabato 15 ottobre gli “indignados” hanno manifestato pacificamente. Solo a Roma, quella stessa protesta trasversale al pianeta, è tramutata in violenza. I giornali, le tv, i vari media, ma anche il resto degli italiani e tanti sardi discutono da sabato notte sull’opportunità di evidenziare la marginalità della frangia violenta, o la incapacità (voluta?) delle forze dell’ordine di arginare quella stessa violenza. Di altri argomenti non si discute. Non si va oltre. Più profondamente. Gli “indignados”, molto ingenui e inesperti, non hanno pensato a nessun servizio d’ordine per evitare qualsiasi imprevisto, e questo da una parte evidenzia i loro limiti, ma probabilmente dall’altra, tutta la loro buona fede. Ma il fatto violento rimane. E non come semplice fatto di cronaca, ma come fatto politico. Infatti sullo sfondo di questa cronaca rimane anche invariato l’immobilismo e il miope cinismo dello Stato italiano. Ecco argomenti su cui non si discute e in fondo ciò non mi sorprende. Un fatto politico quindi prima che un fatto di semplice e grave cronaca, un fatto che va analizzato non tanto in rapporto ai manifestanti, non in rapporto a quella protesta sacrosanta, ma rispetto alla “cultura politica italiana” di questo secolo. Ho sentito molte interviste di quei giovani e mentre la consapevolezza della necessità e della giustezza di quella battaglia era abbastanza chiara, di contro il da farsi, l’elaborazione costruttiva di un futuro diverso era scarno, fumoso, talvolta imbarazzante tanto non riuscivano a spiegare cosa volessero concretamente dal loro futuro se non il desiderio che “tutto cambi”. Gli italiani, e i sardi al seguito, mi appaiono proprio imbrigliati, incatenati. E non soltanto a causa di Berlusconi, quello mi sembra giusto uno dei tanti collanti. Mi sembrano imbrigliati nelle loro paure ma soprattutto nell’assenza elaborativa del loro futuro. Non hanno mai chiaro cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, in maniera netta. E’ la cultura politica dello sfumato, del “però”, del “ma”, del “se”. In Italia non si è ancora “culturalmente” elaborato se la violenza è o meno uno strumento politico lecito. Mentre in tutti i paesi occidentali lo si è fatto ed è valore chiaro e condiviso. Un discorso che avviò la sinistra italiana un lustro fa, con Bertinotti e compagni, ma che non solo non è mai stato concluso, ma non ha avuto approfondimenti o elaborazioni ulteriori e si è lasciato morire volutamente per ritornare all’adagio “forse è sbagliato…”. Vedo ancora troppi “eroi” nell’agone politico italiano legati al terrorismo degli anni ’70 per poter affermare con chiarezza che la violenza è civicamente superata e va condannata. Molti di quei giovani presenti a Roma non lo sanno, ma sono figli di questa ambiguità. Questo il motivo della loro incapacità di prospettare un futuro sereno e civile. Non perchè non siano riusciti a prevedere e arginare i “cascoman”, ma perchè non hanno capito che il cambiamento può venire solo da loro, rifacendo tutto, anche l’autocritica e la condanna di ciò che quelli che li hanno preceduti non hanno saputo fare. In Sardegna a mio vedere c’è ciò che in Italia non c’è e non si intravede. C’è una speranza reale di cambiamento. Che piaccia o non piaccia, qui in yes, we can – si podit fairi ci si crede. Ancora in forma embrionale rispetto al panorama sardo, ma c’è.
Coinvolge una minima parte della società, ma intanto c’è. Coinvolge per lo più giovani e giovanissimi, ma c’è. In Sardegna è avvenuto ciò che è avvenuto nel resto del mondo, ma non in Italia e nè nei partiti italiani.
Il chiarimento della funzione politica della violenza e il suo rifiuto. E la elaborazione su questa base di un nuovo futuro per i sardi tutti. E questo sicuramente fa differenza, una differenza notevole e importante. Parlo del progetto della costruzione di una Repubblica di Sardegna. Un progetto appunto non un sogno, o un’utopia. E come tutti i progetti vanno affrontati con pazienza, studiati, argomentati, elaborati collettivamente e condivisi. La non violenza è il nostro principio. Il primo principio e non ci stanchiamo di ripeterlo, proprio perchè bisogna sapere da dove si sta partendo, quali sono le fondamenta della tua casa, del tuo progetto. Rifiutiamo la violenza sia come mezzo politico sia come strumento di realizzazione indiretta dei propri scopi quanto come metodo di opposizione all’azione politica altrui. Ecco perchè non ci sono “se” o “ma”. Per noi la miserrima condizione della Sardegna non può giustificare nessun atteggiamento di “comprensione” verso l’uso della violenza. Non ci sono “forse” o “ma”. Per costuire la Repubblica di Sardegna, dobbiamo avere dei principi chiari, netti, proprio perchè non vogliamo costruire un’Italia in piccolo, con le sua ambiguità, le sua incapacità a guardarsi dentro e a criticarsi e poter quindi sperare in un futuro diverso. Noi abbiamo fatto anche questo. Abbiamo criticato quelli che da molti vengono considerati i “nostri padri” e lo abbiamo fatto solo e soltanto per capire il perchè siamo stati imbrigliati tanto tempo e come poter costruire un futuro diverso rispetto all’immagine di futuro che abbiamo ereditato. Ancora oggi Renato Curcio dopo tanti anni si dichiara “non pentito”. Nonostante gli assassini, le gambizzazioni e il resto. E molti italiani, non ci pensano nemmeno un po’ a condannarlo per ciò che ha fatto o ciò che sostiene oggi. “Quella violenza lì non conta, era giustificata, erano altri tempi. Il contesto era diverso e poi, e ma, e forse, e se…” e sul Venerdì di Repubblica di questa settimana si parla di lui come uno dei “protagonisti” della politica contemporanea italiana. Io non mi riconosco in questa cultura politica. Questa cultura che esiste solo in Italia e da nessun’altra parte. Ecco perchè è accaduto ciò che è accaduto sabato scorso a Roma e da nessun’altra parte al mondo. Perchè in Italia non si cresce e non economicamente, ma civicamente e politicamente. Molti si lamentano del fatto che i sardi in modo particolare gli indipendentisti tendono a fare partiti ogni giorno. Penso che anche questo che viene visto come elemento di debolezza, in fondo sia dato da una volontà politica più matura, dove a prescindere dallo sfascio dei partiti italiani, noi siamo convinti che lo “strumento” partito sia alla base di una crescita democratica e civile della società. Che non significa che non stiamo sbagliando in qualcosa, ma sicuramente è espressione di una volontà di costruire. Mentre in Italia si scandisce l’apartiticità come un punto di forza per il cambiamento possibile, da noi l’esigenza di riunirci in organizzazioni politiche chiare e definite è al contrario imprescindibile. Forse gli italiani dovrebbero dare uno sguardo alla Sardegna oltre che alla Spagna e agli Stati Uniti. Non nei banchi consiliari è chiaro, ma nel contesto più ampio della politica sarda. Scoprirebbero che la strada della speranza e dell’autodeterminazione è lunga e faticosa ma ciò che conta è che noi la stiamo già percorrendo da diverso tempo.
Grazie Massimiliano
Mmm!! peccato che alla fine ci si è persi in un idea “diversa”, rispettosa, ma distinta da quella di chi, oggi più che mai, soffre di questa crisi culturale.