di Sergio Portas
E’ di ieri la notizia che la Regione Sardegna assiste, attonita come tutta la comunità isolana, alla privatizzazione della Tirrenia in salsa berlusconiana ( ricordate l’Alitalia?), una sorta di svendita delle rotte per quattro soldi ai soliti noti che fanno cartello, alla faccia della concorrenza e delle gare di appalto al rialzo. Tocca sperare che se ne accorga anche l’”Europa” e che, da qui a un paio d’anni, si abbia a rifare il tutto. Per intanto addio continuità territoriale e chi deve viaggiare verso e dall’isola nostra cominci a mettere soldi nel salvadanaio. Non ci resta che sognare una realtà altra, dove l’odierna classe politica (dirigente?) dell’isola sia stata spazzata via da una maestralata gigantesca e sia ormai dedita alla piantumazione di carciofi in Campidano. Come dice Bachisio Bandinu nel suo “Pro S’Indipendèntzia” (ed.Il Maestrale 2010): “…L’indipendentismo crede nel rinascimento, cioè nelle arti e nei mestieri, nell’industria e nella finanza, nell’arte della politica e della economia, nella ricerca e nell’invenzione, nel viaggio e nella conoscenza, nella prospettiva e nella luce” (pag.75). Come dire meglio? Sogniamo dunque che le nuove generazioni di Sardegna siano riuscite a realizzare queste istanze e si abbia finalmente un’altra nazione sovrana al centro del Mediterraneo ( alla sorte del vicino stato italiano hanno intensamente pensato i noti Bossi e Borghezio). Da subito, presumo, la nuova nazione sarda si troverà a fare i conti con le sue minoranze etniche, forse separatiste pure loro. Questo andavo pensando in piazza Duomo a Milano, nella sede della Mondadori, mentre assistevo alla presentazione del libro di Sergio Rossi: “La Cucina dei Tabarchini (Sagepi ed.), che a metà luglio ha preso la medaglia d’argento sul podio del premio Bancarella cucina. Che per chi segue le orme di Carlo Petrini e la banda (sempre più folta) di “Slow Food” non è una roba da poco conto. Il Rossi naturalmente è uno di questi, visto che ha scritto decine di libri sull’arte di cucinare e, da buon genovese qual’è, si è naturalmente dedicato per lo più a quelle ricette tipiche della sua città, che hanno a gonfaloni pesto e focacce di tutti i tipi. Che c’entra la Sardegna? Gli è che a Calasetta, sull’isola di S.Antioco e a Carloforte, su quella di S. Pietro, lato sud occidentale del Sulcis Iglesiente, per l’85% della popolazione ( dice il Rossi) si parla genovese, quindi si pensa , si mangia, ci si comporta, insomma si vive come in una frazione di Pegli. Da dove partirono i primi cercatori di corallo in terra tunisina (Tabarca) per soddisfare la brama di denaro d’uno dei tanti signori feudali del secolo quindicesimo, che trattava i “suoi” feudatari come fossero appendici delle terre che abitavano e quindi ne disponeva a capriccio. La comunità resistette duecento anni pescando coralli e sardine e quando il bey di Tunisi ne ebbe le scatole piene, si era oramai verso il 1720, gli toccò di cercarsi una altra possibilità di vita, non più nel retroterra genovese che in quel periodo stentava a dar da mangiare agli abitanti suoi, che la grande e patrizia repubblica marinara di Genova aveva fatto karakiri alla Meloria, mercè le galee della grande rivale veneziana. Già allora i Savoia governavano da autocrati la Sardegna nostra, non ci si stupisce quindi che un qualche Carlo inFelice (in realtà fu Carlo Emanuele 3°) abbia deciso, senza chiedere nulla ai residenti, che i tabarchini sbarcassero in forze nelle due isole sulcitane, e lì riprendessero a vivere come sempre avevano fatto, pescando per lo più. Del resto trovarono in sant’Antioco (il patrono dell’isola) un parente molto stretto, tutto nero com’è. Proveniente dalla Mauritania narrano le leggende, e per davvero sono neri come il carbone sulcitano, grande dottore miracoloso, lui e il fratello, protettore dei sardi tutti, che di un dottore che faccia miracoli hanno estremo bisogno anche adesso. Comunque sembra che la comunità sarda presente non abbia protestato più che tanto, non doveva essere molto numerosa, quindi più che una assimilazione di culture fu, in estrema sintesi, una vera e propria invasione, seppur pacifica e avvenuta sotto il sigillo reale, che tutto sana e legittima. Devo dire che le due isolette sono un paradiso nel paradiso sardo e, anche se non ci metto piede da un qualche decennio, ne ho un ricordo di calette a mare basso l’una più suggestiva dell’altra. Calasetta e Carloforte, confermo, paiono rioni genovesi, le case un po’ come la Marina di Cagliari, meglio tenute, i colori pastello e bianche di calce cotta dal sole. Sergio Rossi dice che ci si possono trovare piatti che oramai a Genova, la madrepatria, oramai sono spariti. Dice anche della tonnara di Portoscuso in Carloforte, l’ultima veramente attiva in Italia. Dove impera il tonno rosso, qualità pregiata che finisce nelle pance dei ricchi giapponesi, una scatoletta di quelle che io al supermercato pago due euro si vende bene a venticinque. E a fine presentazione, dinanzi agli assaggi dello straordinario pesce conditi da Carignano del Sulcis, la ressa è tale che il vostro povero cronista non ha cuore di buttarsi nella mischia e rimane a becco asciutto, di pesce, che per il vino va meglio. I giapponesi che vi dicevo il tonno lo vanno a scovare in alto mare con aerei intercettori, una volta identificato il branco le grandi navi buttano reti dette a circuizione e catturano tanto di quel tonno che dieci tonnare non basterebbero. Certo lo spettacolo della “camera della morte” rosseggiante del sangue dei grandi pesci che vengono arpionati, fa arricciare il pelo d’ogni sano animalista ma persino Sergio Rossi si sta impegnando in una raccolta di firme perché la tonnara sarda diventi fissa, visto l’esiguo numero di tonni che può pescare a fronte della flotta giapponese che, a dire il vero, va in bianco da qualche mese. I suoi aerei intercettori disturbano i bombardieri Nato che vanno , con scarso successo in verità, a convincere Gheddafi a che lasci al più presto la Libia. Salvando così dalla vera mattanza i famosi branchi di tonno rosso. Che naturalmente fanno parte dei piatti sontuosi che la cucina tabarchina è capace di imbandire. Assieme al “cascà” che sarebbe il cus cus tabarchino, fatto in mille e più modi quanti sono i cuochi e le massaie calasettane e carlofortine. Che “la vera ricetta” non esiste, dice Rossi. Neppure per il pesto, figurarsi per il cascà. Come testimoniava Giovanni Rebora, storico dell’alimentazione italiana, curioso e meticoloso, all’università a lezione portava ai suoi studenti fave fresche e salame, ottenendo successo clamoroso. Arrivavano anche quelli di scienze politiche e filosofia. Il bello dei ristoratori sardi, pardon tabarchini, del basso Sulcis è che non hanno stravolto la cucina della loro tradizione. In più, specie negli ultimi decenni, hanno trovato un vino di grandi qualità a supporto dei loro piatti. E qui entra in scena sua maestà il Carignano del Sulcis. Sarà che quelli di Serdiana, gli Argiolas, ne hanno fatto un feticcio funzionante per l’intero continente, il loro Turriga si vede nelle mense dei paperoni di New York e tra i nuovi ricchi russi che a Londra si comprano le squadre di calcio inglesi. Sarà che anche le cantine di Santadi e la nuova di Gavino Sanna a Sant’Anna Arresi lavorano solo per la qualità con prezzi a seguire, che non conoscono le basse congiunture degli stipendi medi italiani e sardi in particolare. Fatto sta che anche la cantina di Calasetta, dodici soci nel 1932 e ora sono trecento, si è messa a produrre vini di ottima qualità, dei prezzi non so dirvi, solo sperando che si discostino da quelli che vi dicevo prima, pena l’impossibilità di farne vini da pasto, non dico quotidiano, ma finanche da festa grande, come è quella che porta in processione S. Antioco, loro dicono la più antica della Sardegna tutta. Ma per tornare al tormento che mi ha preso al secondo bicchiere di “Cala Seta”, un vermentino di splendidi sapori di mare, e se questi volessero secedere, in un futuro che non vedo proprio immediato, se volessero riandarsene tra le
braccia di mamma Genova? In odio alla Sardegna che li opprime e che cercherà ( chi lo sa) di infliggere ai loro figli corsi di gallurese e campidanese? Ai posteri… Vi lascio con una parte di poesia di Bruno Rombi, poeta e scrittore nato a Calasetta, a Genova oramai da quaranta anni e più, si intitola “Canzone all’isola”: “…Il grano ondeggia/ il sole s’è chetato/ il vento che dal mare/ acuto canta/ spoglia le spighe d’ogni rimembranza/ e lascia all’aria/ l’eco di bardane…/ Io dico che parla di Sardegna.