di Omar Onnis
Se diamo uno sguardo spassionato alla condizione generale della Sardegna, in tutti i suoi elementi, è difficile sfuggire all’impressione che siamo (ancora e sempre) niente più che un’area campione per esperimenti su vasta scala. Non parlo solo delle servitù militari, delle sperimentazioni belliche, che pure sono parte dello scenario. Mi riferisco invece a qualcosa di meno evidente, se lo si guarda dal basso, standoci dentro, ma non per questo meno reale degli ordigni sparati nel Salto di Quirra o a Capo Teulada. Prendiamo alcuni dati: 372mila disoccupati, 10mila studenti universitari che lasciano la Sardegna senza che vi sia un analogo flusso in entrata, un quarto dei ragazzi tra 18 e 25 anni escluso da qualsiasi percorso formativo, impoverimento e invecchiamento demografico di larga parte del territorio, spoliazione sistematica delle risorse, corruzione diffusa, sfruttamento del territorio per lo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi e/o tossici (compresa la sede stradale della nostra arteria principale) o per speculazioni di ogni forma e contenuto (mai viste le pale eoliche di Bonorva?). A ciò si accompagna il ricatto occupazionale eretto a fondamento socio-economico, sorretto da una potente macchina ideologica. Tutto casuale, frutto di dinamiche totalmente spontanee? È lecito dubitarne. La Sardegna è un posto comodo dove fare esperimenti di tipo sociale, produttivo, antropologico (vedi alla voce Piani di Rinascita), o da usare come pegno nelle relazioni internazionali (vedi sudditanza NATO e USA), o come pedina sacrificabile, anche nel senso di pedina di scambio. Per uno stato come quello italiano è una risorsa ideale: lontana, periferica, ininfluente, dominata da una classe di mediocri podatari (i rappresentanti in Sardegna del feudatario) che debbono i propri privilegi a centri di potere e di interesse esterni, da cui non possono emanciparsi. Di pochi giorni fa è l’allarme internazionale sul land grabbing, l’acquisto (per lo più forzato) di grandi aree da parte di stati forti o di grandi multinazionali allo scopo di garantirsi terra fertile o comunque spazi liberi da utilizzare secondo le proprie necessità. La Sardegna è una vittima potenziale di queste pratiche neo-colonialiste, considerato anche che la gran parte del consumo agroalimentare si basa su prodotti importati e che l’aumento dei costi di trasporto in corso potrebbe generare entro breve una crisi alimentare, dunque indebolire ulteriormente il tessuto socio-economico dell’Isola, esponendola ad ulteriori più pesanti ricatti. La debolezza finanziaria dell’Italia non fa che deporre a favore di questa prospettiva poco rassicurante. In cambio dell’acquisto di fette del proprio debito pubblico, cosa proporrà come garanzia lo stato italiano? E se la scelta cadesse sulla Sardegna, la classe politica sarda sarebbe in grado o avrebbe la volontà di opporsi e magari mobilitare l’opinione pubblica? In occasione della questione nucleare abbiamo visto che senza l’iniziativa di soggetti estranei al circuito politico principale difficilmente avremmo avuto un referendum regionale in materia. Quello è un esempio da tenere a mente. Insomma, non c’è di che stare tranquilli. Se non si avvierà al più presto un processo di acquisizione di consapevolezza storica e politica diffusa, non è affatto escluso che la nostra situazione precipiti ulteriormente. Devo ripetermi: nessuno ci salverà all’infuori di noi stessi.