di Natalino Piras
Il monte Ortobene è come il libro dei libri per i nuoresi. Il monte e la festa del Redentore. Pagine senza soluzione di continuità, una biblioteca inesauribile dove si entra come in quella di Babele creata da Borges e dove un testo ne richiama subito un altro. Ci sono realtà e finzioni, ascese e emozioni, solarità e rime petrose. Il monte millenario, carico di segreti e disseminato di ascusorjos, tesori impossibili da trovare, è l’aspetto intimo della festa. Poco più di un secolo fa, un ragazzo-pastore corse con il cuore in gola nella boscaglia di verde fitto per sfuggire a un assassino. Impresse quella fuga in versi ancora oggi tramandati, antologizzati da Gonario Pinna, ripresi a tratti e ritrasformati dal nipote di quel ragazzo-pastore, Giovanni Piga, pure lui conoscitore-narratore del monte. Che è aspro e selvaggio ma anche luogo classico per costruirvi chiese e santuari, intorno ai quali far poi muovere tante storie. Prendete Grazia Deledda per esempio. In una guida di Nuoro, stampata in occasione dell’ultima Europeade, si legge: “No, non è vero che l’Ortobene possa paragonarsi ad altre montagne; l’Ortobene è uno solo in tutto il mondo: è il nostro cuore, è l’anima nostra, il nostro carattere, tutto ciò che vi è di grande e di piccolo, di dolce e duro e aspro e doloroso in noi”. Una descrizione sempre attuale che si attaglia all’intensa spiritualità di certi passaggi del poeta Frantzischinu Satta, che l‘Ortobene cantò, così come alla religiosità diffusa che una festa grande come il Redentore pure comporta. Ci sono nel monte sentieri e tracce, percorsi già mappati e descritti da Renato Brotzu e Domenico Ruiu. Altri se ne potrebbero ancora inventare. Percorsi ambientali e percorsi letterari dove pellegrini e novenanti diventano raccontatori di se stessi. Molte storie del monte già si sanno. Alcune si conoscono a memoria. Come quella del cinghialetto deleddiano, portato dentro la bertula dal ragazzo pastore. Oppure quell’altra di “ascendi il monte mirando il tuo sole”, il motto dei poveri di Seuna la cui rivoluzione mai attuata racconta Salvatore Satta nel Giorno del giudizio. Sono storie che piace risentire e riascoltare. Storie di banditi, di janas, di vescovi e preti, di processioni con la statua del Cristo Redentore portata a spalle. La statua bronzea, quella su un cima, l’opera di Vincenzo Jerace ora da restaurare la portarono su, divisa in più parti, sistemata su carri tirati dai buoi, agli inizi del Novecento. Da allora il Redentore domina sul mondo circostante. “Dal belvedere si può godere un panorama a 360 gradi che spazia da Nuoro alla vallata di Marreri, al paese di Orune coi suoi monti, il Gennargentu e il Supramonte”. A volte sembra che neppure il Redentore possa farci niente. Lo dicono altre storie raccontate nel libro dei libri dei nuoresi, in parte scritto, in parte memoria ancora da trascrivere. Più che storie sono tragedie. Cose realmente accadute. Come i roghi che hanno bruciato il verde della foresta, profanando il monte. Ci sono stati dei morti, uccisi dal fuoco. E altre storie ritornano alla memoria, racconti di devastazione dei santuari, di abolizione del sacro, di nuove ascese su fino in cima, ancora davanti alla maestosità del Redentore. Per ristabilire magari un nuovo senso del racconto. Molto altro si scriverà sul monte e sulla festa del 29 agosto. Storie già ascoltate riappariranno. Bisognerebbe istituzionalizzare un modo di tramandarle. Questo modo potrebbe essere il raccontare e far raccontare, leggere e ascoltare le pagine del libro dei libri negli stessi luoghi del racconto. Farlo alla maniera che insegnano i classici: camminando e facendo tappa. In questo senso di itineranza, il Redentore su in cima potrebbe diventare la nostra Canterbury o il nostro Santiago de Compostela, santuari che come la borgesiana biblioteca di Babele sono contenitori di storie infinite.