di Roberto Bolognesi
Ecco perché la parlata meridionale non è stata mai inquinata dai dominatori. Nel corso del dibattito di questi ultimi mesi sul tema “Quale varietà del sardo scegliere come lingua ufficiale”, si sono sentite diverse voci che, appellandosi all’autorità di Max Leopold Wagner, hanno riproposto il vecchio luogo comune secondo il quale il sardo meridionale sarebbe il risultato di un pesante “inquinamento” linguistico dovuto al contatto con le lingue dei vari dominatori succedutisi in Sardegna. Si dà il caso che sull’argomento del contatto linguistico in Sardegna dal medioevo a oggi io abbia scritto un libro, dal titolo “Sardegna tra tante lingue”, assieme ad un collega dell’Università di Groninga, specializzato in linguistica computazionale. Il nostro lavoro si propone di verificare, sulla base di un’analisi storico-linguistica, da un lato, e computazionale, dall’altro, una serie di luoghi comuni della storia linguistica sarda, di cui i pregiudizi riproposti in questi mesi sono solo l’ennesimo esempio. Bisogna subito dire che lo stesso Wagner non era immune da pregiudizi. Il concetto di “purezza della lingua” era per lui strettamente connesso a quello di “purezza della razza”. Nel 1908, quando ancora era agli inizi dei suoi studi sul sardo, le sue opinioni sulle diverse varietà del sardo erano già molto nette: «Il Sardo dei monti è un tipo del tutto diverso dal suo fratello della pianura. Mentre questo è di statura piccola, colorito pallido, carattere servile e tradisce chiaramente l’impronta spagnola, il Sardo delle montagne è alto, il sangue gli si gonfia e ribolle nelle vene … Egli disprezza il Sardo del Meridione, il “Maureddu”, come nel Nuorese vengono chiamati gli abitanti della pianura. È fuori di dubbio che in queste montagne l’antica razza sarda si sia conservata molto più pura che nella pianura, continuamente sommersa dai nuovi invasori. Anche la lingua è la più bella e la più pura; è un dialetto armonioso e virile, con bei resti latini antichi ed una sintassi arcaica, quello che sopravvive in questi monti con sfumature varianti da un villaggio all’altro». Come la maggior parte degli Europei del suo tempo, Wagner era razzista. Non sarebbe giusto attaccarlo nella persona per questo ma rimane doveroso distaccarsi da questa ideologia mostruosa che, fra l’altro, ha chiaramente ottenebrato la capacità di giudizio del linguista tedesco. Ma è vero che la pianura sarda è stata continuamente sommersa da nuovi invasori? Il grande geografo francese Maurice Le Lannou è esplicito nell’escludere una massiccia presenza di colonizzatori nell’isola: «A dire il vero, la Sardegna non attira molto il colono, cioè il vero abitante. Di vere e proprie colonizzazioni, generatrici di sviluppi demografici, di fioriture urbane e di popolamento rurale, la Sardegna nella storia, ne ha conosciute ben poche». Le affermazioni di Le Lannou trovano conferma in uno studio sulla storia del villaggio di Sestu, pubblicato dall’amministrazione comunale nel 1991. Un breve capitolo è dedicato ai cognomi originari del villaggio. Per l’anno 1761 sono riportati 84 cognomi. Di questi solo 4 (Brandisca, Pisano, Salamanca e, eventualmente, Ferru) non sono di chiara origine sarda: sembrano di origine pisana i primi due, il terzo è di chiara origine iberica e il quarto potrebbe essere un cognome italiano sardizzato, ma potrebbe anche essere un cognome catalano e, naturalmente, un cognome sardo. Gli abitanti di Sestu erano in quell’anno 995 e, supponendo che il numero medio degli abitanti che condividevano lo stesso cognome fosse uguale per ciascun cognome, possiamo calcolare che a Sestu vivessero 47 abitanti di origine non completamente sarda: una decina di famiglie. Arriviamo quindi ad una percentuale di “alloctoni” inferiore al 5% (4,7). La cifra è di per sé già bassa, ma va poi divisa per tre, grosso modo, visto che gli antenati degli “alloctoni” parlavano tre lingue diverse (pisano, catalano e spagnolo). Questa esiguità diventa ancora più rilevante se si tiene conto che Sestu si trova a soli 10 chilometri da Cagliari, la capitale sarda, porta d’accesso all’isola e sede di residenza di tutti i colonizzatori. A questa constatazione va poi aggiunta la considerazione che, in qualunque situazione, gli invasori sono in genere dei soldati: di fatto, maschi celibi. Necessariamente gli invasori dovettero sposarsi con donne sarde, entrando a far parte di famiglie sarde. L’effetto potenziale, anche linguistico, della loro presenza sulla cultura locale va quindi almeno dimezzato (i figli degli invasori erano anche figli di donne sarde, allevati in un ambiente sardo) già a partire dalla seconda generazione. Ad essere sommersi, perciò, e non solo linguisticamente, furono gli invasori. Questo esempio dimostra che le condizioni demografiche per una colonizzazione linguistica della Sardegna meridionale non sono mai esistite. Un altro pregiudizio vuole che a esportare l’influsso linguistico dei colonizzatori nel Campidano siano stati i Cagliaritani, visto che loro erano in contatto, anche linguistico, con i dominatori residenti nella capitale. Il pregiudizio viene smentito dai dati disponibili. Nel periodo che va dal 1709 al 1761, lo studio su Sestu riporta anche che, in otto casi, i cognomi rilevati a Sestu provengono da villaggi circostanti, ma non viene segnalato neanche un caso di immigrazione da Cagliari. Il contatto fra la comunità linguistica di Sestu e la fonte di potenziale “inquinamento linguistico” è stato quindi molto limitato nel corso dei secoli, e se questa era la situazione in un villaggio alle porte di Cagliari, possiamo immaginare quale fosse la situazione nel resto delle pianure sarde. Per quanto riguarda i Pisani, i presunti maggiori responsabili dell’inquinamento linguistico, il periodo della loro consistente presenza in Sardegna è stato molto breve. Il Castel di Castro (l’attuale quartiere di Casteddu ‘e Susu di Cagliari), primo insediamento pisano ed esterno rispetto alla capitale giudicale di S. Igía, «fu costruito da un gruppo di mercanti pisani nel 1216/17»2. Anche in seguito all’insediamento pisano a Cagliari, i rapporti fra i Pisani e Giudici di Cagliari furono tutt’altro che idillici. Salussio IV, l’ultimo Giudice di Cagliari, prima della cruenta conquista pisana del giudicato nel 1258, «fu forse ancora più filoligure dei suoi predecessori, essendo tanto sottomesso ai Genovesi da scacciare tutti i Pisani dal Castel di Castro». Durante il loro breve dominio, i Pisani non si trovarono mai nelle condizioni più favorevoli per influenzare la lingua delle classi dirigenti di Cagliari. Ora, chiunque abbia almeno una cinquantina d’anni sa benissimo quanta difficoltà hanno avuto i sardi a impadronirsi dell’italiano, duecento anni dopo l’imposizione dell’italiano come lingua ufficiale, prima dell’avvento dei mezzi di comunicazione di massa e della realizzazione effettiva della scuola dell’obbligo. Lo stesso Gavino Ledda è l’esempio più noto di questa difficoltà. Come avrebbero potuto allora i Pisani, in soli sessantaquattro anni, modificare radicalmente il sardo meridionale, oltretutto senza avere nessuno strumento a disposizione per insegnare la loro lingua ai sardi? Perché, se da un lato è semplicissimo prendere in prestito alcune parole da un’altra lingua, imparare la pronuncia di un’altra lingua è difficilissimo. Non basta il fatto che una lingua sia prestigiosa – ma il pisano lo era? – e che la gente voglia impararla: pensate a tutti quelli che oggi vorrebbero parlare l’inglese e, malgrado l’abbiano perfino studiato a scuola, non ci riescono. E i problemi maggiori si hanno, appunto, con la pronuncia. La “pisanizzazione” linguistica del Campidano prospettata dal Wagner ha del miracoloso. E infatti un’analisi linguistica degli argomenti presentati dal linguista tedesco mostra subito quanto deboli siano questi argomenti. Inoltre, visto che nelle università olandesi alla linguistica si applicano ormai le tecnologie moderne, io e il mio collega Wilbert Heeringa ci siamo presi lo sfizio di andare a misurare con il
computer quanto si avvicinino all’italiano cinquantasei dialetti sardi, appartenenti a tutte le varietà principali. Chi si lascia guidare dal buon senso e non dai pregiudizi non sarà sorpreso nell’apprendere che i dialetti sardi che più si allontanano dall’italiano sono proprio quelli campidanesi centrali, mentre quelli più simili sono ovviamente quelli nuoresi. Infatti la parola pane, per esempio, è identica in italiano e nel sardo centrosettentrionale, mentre nel campidanese centrale è pãi, cioè presenta una A fortemente nasalizzata, è priva della nasale e presenta anche una I al posto della E. Il complesso di fenomeni analoghi, presenti in duecento parole selezionate in modo randomizzato dal computer, comporta che, sia pure non in modo drammatico, i dialetti centrosettentrionali siano più vicini all’italiano. Questa vicinanza relativa tra dialetti nuoresi e l’italiano, ovviamente, non è il risultato di un’influenza dell’italiano, ma deriva dalla relativa vicinanza di queste varietà al latino: italiano e parte dei dialetti nuoresi si sono spostati meno dal latino e sono perciò rimasti anche più simili tra di loro. Per la cronaca: anche il mito dell’arcaicità del sardo crolla davanti al computer. Abbiamo anche misurato la quantità di prestiti dall’italiano presenti nel nostro campione: sono circa il 7% in ogni dialetto sardo. Non esistono oscillazioni di rilievo. La fantomatica italianizzazione linguistica del sardo meridionale, quindi, è ancora di là da venire e il dibattito sulla varietà del sardo da adottare come lingua ufficiale può ripartire su delle basi più solide.
Prima di Wagner, comunque ci sono stati dei SARDI che hanno lanciato questo pensiero! Non dimentichiamo questa cosa!
Matteo Madao (1733-1800) con il suo lavoro: Saggio d’un’opera, intitolata il ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue, la greca e la latina (1782) dice:
“O ripuliam ambidue i dialetti dell’uno, e dell’altro Capo della nostra nazione; o prescegliamo quel solo del Logodoro, ch’è il primigenio, più chiaro, e più puro che l’altro, come più scevero di quella corruzione, che in quello hanno fatta le tante nazioni a cagione del traffico, ch’ebbero a Cagliari, certamente maggiore che in qualunque altra parte di questo Regno”. (Madao: 1782: 33).
Vincenzo Raimondo Porru (1773-1836) che ha fatto una descrizione del Sardo Campidanese: Saggio di grammatica sul dialetto sardo meridionale (1832) scriveva:
“Quindi, è che ne’ paesi centrali dell’Isola, ove appena i viaggiatori penetrano, se l’bisogno, o la curiosità non ve li spinge, serbansi tuttora intatte le prische voci, e l’antica vibrazione della pronunzia pretta Latina.” (Porru: 1811: xvf)
Giovanni Spano (1803-1878), con la sua: L’ortografia nazionale sarda, ossia grammatica della lingua logudorese paragonata all’italiano (1840), diceva:
“Sebbene possa dire della lingua sarda ciò che diceva l’Alighieri del volgare italico, esser quello che appare in ciascuna Città d’Italia, ed in niuna riposa, ma rispetto al luogo, stava più in Toscana, che nelle altre Province. Così la lingua sarda sta a preferenza in questo dipartimento. Questo io chiamo sempre il dialetto comune, e tutta questa regione può appellarsi con ragione l’Attica del Logudoro, o la Sarda Toscana”. (Spano: 1840: 1998)
Cerchiamo prima la colpa in loco che mi sembra più adatto! con tutta la stima che ho per te Roberto, ma acababdda!