di Claudia Zedda
Il vino, una delle principali gioie della vita, da sempre si è mescolato con quanto di sacro e rituale, piacevole e gioioso i popoli del mediterraneo abbiano elaborato. Nettare degli Dei ben conosciuto anche dagli uomini, a parlare di vino immediatamente ci salta in mente Dioniso che per primo pensò, secondo quanto vuole la leggenda greca, d’estrarre dalle rubiconde bacche il liquido lascivo. Della sua prima vendemmia Nonno di Panopoli ci ha lasciato pure il racconto, tanto ricco in particolari e cura dei dettagli da regalare al lettore la sensazione d’aver partecipato all’evento fatto di eccitata frenesia, allegria, canto e festa.
E’ leggendo che spiamo un Dioniso intento a recidere con il suo affilato tirso i grappoli d’uva appena maturi e riempire una grande fossa scavata nella pietra a mo di tino, accompagnato dai satiri che vendemmiano e cantano. Con un batter di piedi ritmico e costante i chicchi rigettano il loro liquido violaceo e il vino prende a sgorgare rosseggiante mentre la vendemmia sprigiona la bianca spuma cremosa. Niente di troppo diverso da quel che accade oggi durante le piccole vendemmie familiari. Da quel momento in poi sarà la vite ed il vino ad accompagnare le lunghe feste celebrate in suo onore, estreme, travolgenti, che pur sempre seguivano una ritualità ferrea, inviolabile. Al vino, al canto, alla danza il compito di mettere in contatto uomo e divino.
D’altronde la vite in ogni cultura del mediterraneo antico è stata intesa come pianta cosmica, Dea Divina. Fu così per Creta nella quale nacque nel secondo millennio, frangia del culto della Grande Madre, il culto del Dio Vino, e nemmeno l’Asia minore fu esente da un culto simile. Qui la vite era detta la Grande Madre del Vino e fra i Sumeri non solo la vite era Dea e Madre, ma era definita erba della vita in quanto simbolo di immortalità esattamente come il vino divenne icona di eterna gioventù. Gli ebrei si spinsero oltre e nella Mishnah, corpo di leggi non scritte ma tramandate oralmente, si afferma che la vite era l’imponente albero della scienza del bene e del male.
Ma è della Sardegna che ci preme parlare, e del suo rapporto con il vino, tanto amato, tanto odiato. Le prime informazioni sul nettare porporino ce le regala la mito-storia secondo la quale fu Aristeo in compagnia di Dedalo a portare sull’isola per primo l’arte della coltivazione della vite, dell’ulivo e dell’allevamento delle api. Per secoli questa antica, fantasiosa spiegazione è bastata ai sardi, tanto più che secondo la storiografia più accreditata vino e coltivazione della vite arrivarono esattamente come racconta la leggenda, seguendo le vie del mare. Non Aristeo ma i Fenici tra il IX e l’VIII secolo a.C. insegnarono ai sardi la vitivinicoltura si sarebbe poi sviluppata durante la dominazione cartaginese nel VI secolo a.C. e perfezionata durante la dominazione romana, per intenderci dal III secolo a.C.
Come accade spesso, ancora più di frequente se si parla di archeologia, più si scava più si scopre, e lo scavare recente ha portato a conclusioni davvero sorprendenti. Risultato? La storia di ieri è tutta da riscrivere, per lo meno per quel che riguarda il rapporto fra Sardegna e vino, antico, antichissimo, e pensate un po’? Aristeo e Fenici raggiunta l’isola non solo non importarono nulla di troppo innovativo in fatto di vino, ma è più probabile si siano sorpresi ad assaporarne uno tanto squisito e tutto isolano.
Moderne tecniche d’indagine archeologica hanno permesso di retrodatare la presenza della vite e del vino in Sardegna almeno al XV secolo a.C. quando ancora correva l’Età del Bronzo Medio e pare che durante l’età del Bronzo Finale, e quindi tra il XII e IX secolo a.C per la civiltà nuragica al suo massimo apogeo, la coltivazione della vite non avesse segreti. E’ esattamente durante quest’epoca che ceramiche di fattura isolana si sparpagliano all’interno di tutto il mediterraneo: ne sono state ritrovate di deliziose in Sicilia, a Creta, in Tunisia nella penisola iberica. Niente vieta d’immaginare che siano partite dai porti sardi colme di vino consumate poi durante banchetti in terre lontane con la quale la Sardegna era in ottimi rapporti commerciali. Sorprenderà certo scoprire che insularità non era sinonimo di isolamento, per lo meno durante l’Età del Bronzo.
Ci dicono qualcosa di più concreto i ritrovamenti di vinaccioli carbonizzati in diversi siti nuragici (Nuraghe Genna Maria a Villanovaforru, Nuraghes Duos Nuraghes di Borre, Nuraghe Adoni di Villanovatulo tanto per citarne alcuni) spesso mescolati con semi di fico, polline e cereali. Regalano la certezza della familiarità dei sardi con il vino già in epoca nuragica e in alcuni casi i vinaccioli sono stati ritrovati in così ottimo stato che si spera con un esame del DNA di poter individuare le specie di appartenenza, aprendo così le porte a nuove affascinanti indagini.
Ma i ritrovamenti vecchi di millenni non si limitano a qualche vinacciolo carbonizzato, vanno ben oltre. Nel complesso nuragico di Bau Nuraxi in località Talavè è stata ritrovata una brocca askoide, finemente decorata di rosso al suo esterno e contenete al suo interno tracce di acido tartarico. Ciò a detta degli archeologi può significare solo una cosa: quel contenitore custodiva intorno al 1000 a.C. del vino! E ovviamente quello di Bau Nuraxi non è l’unico ritrovamento in tal senso.
E i fenici? Hanno anche loro un ruolo importante per quel che riguarda la vinificazione in Sardegna, seppure ad oggi abbiano perso il diritto di farsi padri del vino sardo. E’ proprio sotto il loro dominio che il vino sardo conosce una fortissima commercializzazione. Ad attestarlo la sorprendente diffusione nel bacino mediterraneo di una nuova tipologia di anfore vinarie da trasporto comunemente denominate ZitA che per quanto mostrino una foggia orientale sono composte di argilla isolana. La logica ha indotto gli archeologi a supporre che vista la produzione isolana della ceramica anche il vino esportato con esse fosse prodotto sull’isola, che a sorpresa si dimostrò capace di far conoscere con un certo successo il proprio vino in tutto il Tirreno, nell’Italia centrale a Cartagine e nella penisola iberica.
Ci sanno fare i sardi con il vino, ci hanno sempre saputo fare e con qualche millennio di ritardo se ne sono accorti anche oltre mare. Il New York Times definisce il tutto sardo Costamolino, delle cantine Argiolas un eccezionale incontro fra qualità e prezzo e a noi che lo beviamo da sempre non resta che dire: “Bella scoperta”!