DEL ROSSO E DEL NERO: RICORDI D'INFANZIA LEGATI ALLA VENDEMMIA


di Michela Murgia

Quando da bambini mettemmo per la prima volta i piedi nudi sugli acini rotondi fu vera frenesìa, simile al tornare a casa dopo un viaggio noioso e forzato. Ricordo ancora ciascun frutto che si spaccava come un’oliva confettata sotto il peso dei nostri calcagni lisci e delle dita strette, facendo udire il suo lamento croccante lungo le ginocchia, sopra l’ombelico, oltre la gola e su, fino all’orecchio dell’infanzia contadina che tutti siamo stati, genìa danzante sull’uva matura: se non era musica quella, di certo gli somigliava molto. L’odore del succo che sprizzava dagli acini saliva acre verso il cielo, vivo e pieno di promesse d’alcol, e nell’ansimare della danza infantile lo aspiravamo a narici piene. Non ce lo avrebbero mai fatto bere una volta pronto e lo sapevamo, ma in quel respiro a polmoni aperti c’era già il riscatto dell’ingiusta privazione. Sotto ai nostri salti scomposti la grande vasca di pietra rosseggiava come una foglia in autunno e i raspi che si accumulavano sul fondo non riuscivano a trattenere il flusso del mosto fresco che colava generoso dal becco sporgente di basalto nero, dritto dentro ai secchi, facendo rumore di fonte. Gli uomini ridevano, svuotandoli man mano che si riempivano, mentre le donne aggiungevano i grappoli sotto ai nostri piedi badando che non scivolassimo sulla pietra porosa, ma non accadeva mai. Con le vesti corte e prudentemente scure, le mutande di cotone spesso e le gambe bambine arrossate dai succhi, il gioco più bello del mondo era per noi quel baccanale di frutta, distruttivo e gustoso, con un odore di proibito che ci restava appiccicato addosso per giorni: nessun adulto conosce il nome di quella libertà. Smettemmo di pigiare così non so bene quando, in autunni fatti timidi dalle cosce coperte, con braccia irrobustite ormai impegnate in altro. O forse vennero prima le macchine a danzare al nostro posto, mutando nel ronzio di un meccanismo la musica lieve dell’infanzia perduta. Di certo ricordo che noi bambini odiammo per istinto il torchio nuovo di fabbrica che mio nonno si comprò, ultimo tra tutti i suoi vicini a mettere da parte la vasca per la pigiatura. Ogni volta che mi siedo con gli amici a tavola e scelgo con loro una bottiglia da condividere, il ricordo di quel ballo antico mi rende gelosa e astuta. Lascio scegliere il vino a chi vuole, purché sia rosso vivo, quasi nero. Binu nieddu. Non c’entra nulla il cibo, carne o pesce sono convenzioni: i vini si abbinano agli amici, non ai piatti. Per questo il bianco mi spaventa, ha segreti che non conosco e il lucore della sua trama nel bicchiere mi sembra più ingannevole di ogni turbinare di rubino. Se qualcuno lo chiede glielo servo, ma so che i nostri occhi a tavola quella sera non si incontreranno, perché non si balla lo stesso passo su due musiche diverse. Una volta scelto il nettare, levargli il sigillo è però un piacere che non cedo a nessuno. Quando il tappo di sughero sguscia via dal collo della bottiglia lo accosto al naso e lo annuso in silenzio. Gli amici mi credono somma intenditrice e spiano i gesti e le espressioni come guerrieri l’aruspice prima della battaglia finale, ma non sanno che non è il difetto del vino che io cerco: è l’infanzia, il ritmo della danza, il croccare dell’acino, il sentore del basalto impregnato, l’inciampo sul raspo, il tannino del seme, la storia di un campo e di chi l’ha posseduto. La memoria olfattiva dicono sia la più lunga e affidabile e io posso testimoniarlo. Quando riapro gli occhi e decreto che il vino va bene, tutti tirano un sospiro di sollievo. Nessuno intuisce la segreta delusione per l’ennesimo incontro mancato e insieme si brinda al futuro e al presente, che il passato non appartiene più a chi gli è sopravvissuto. Chi beve per dimenticare ci riuscirà di certo, e del resto gli uomini e il vino hanno da tempo stretto un patto disonorevole con l’oblio. Ma una donna dal frutto dell’uva si aspetta qualcosa di più. Io cerco nel profumo l’aroma e la cultura, nel colore scruto il nerbo e la storia e in ogni sorso richiamo sottovoce il retrogusto lieve della mia memoria.

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Un commento

  1. …Com saias curtas e prudentemente escuro, calcinhas de algodão grosso e sucos pernas meninas vermelho, o jogo mais bonito do mundo para nós era que orgia de frutas, destrutivo e saborosa, com um cheiro do proibido que permaneceu agarrado a dias: nenhum adulto sabe o nome dessa liberdade. "Molto bello questo testo -sembra piu una poesia
    Complimente Michela.
    Abbracio – Lucinha Dettori dal Brasile

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