di Claudia Zedda
Credo che la terra riconosca i propri figli fin dal primo passo con il quale la calpestano. Forse è per questo che l’unica che io riesca ad ascoltare è la Sardegna, con i suoi paesaggi misteriosi, con i suoi colori selvatici, con le sue incoerenze e le sue suggestive certezze. Eppure ogni terra custodisce un segreto che è ben disposta a condividere a patto che la si osservi in silenzio, con negli occhi l’intesa voglia di scoprire. Non so se la Cina mi abbia raccontato il suo, per certo posso dire che si è mostrata senza vergogne, che difetti ne possiede, ma i suoi pregi sono maestosi, brillanti, antichi. E’ un’imperatrice anziana, saggia, vedova, che si lascia viaggiare nel capo, nel seno, nelle braccia, nell’ombelico, nelle gambe, nei piedi, e ovunque si mostra varia, diversa, in moto. Il filo conduttore è la tradizione, l’architettura, la cultura, la religione che nessuno più pratica ma che tutti ancora vivono. Il comunismo l’ha cambiata, l’ha spogliata eppure lei non ha fretta. Sembra sappia che sia stata solamente una stagione, che di foglie ne cadranno ancora, ma che presto tornerà la primavera brillante. Ad esordio mi ha deluso la quasi totale e apparente assenza di tradizioni, ma lentamente, a poco a poco le ho ritrovate in quel rosso imperante che troneggia nei ristoranti, nelle strade, nelle macchine, al collo dei cinesi. E’ un colore di buon auspicio, il colore della vita, il colore delle spose. Secondo al rosso è solo il giallo, tinta dell’imperatore, drappeggio dei monasteri buddisti. La città proibita si nasconde al cielo con tetti di terracotta rivestiti di un giallo brillante, che sotto il sole sembra oro o scintillio di stelle. Ad essere gialle nei templi sono invece le tuniche dei monaci e le pareti tutte avvolte dal fumo d’incenso che arde, acceso dai pochi fedeli che pregano il budda del passato, del presente o del futuro. Quel profumo di sandalo soffiato all’ingresso del quadrato sacro crea un’atmosfera da sogno che distorce il reale e precipita il visitatore in un mondo sacro. I turisti lo profanano con una pioggia di foto, pure la dove le foto non sono consentite. Credono i buddisti, così mi è stato detto, che ogni foto rubi un frammento d’anima del budda e per questo le vietano, e credono anche che le offerte di frutta e dolciumi lo allietino e che i fedeli non debbano mai stare fermi nell’ingresso delle porte, via di passaggio fra il mondo yin ed il mondo yang, l’uno dei vivi, l’altro dei morti. Di templi buddisti ne ho visti tanti, uno per ogni città, eppure il più bello è stato quello di Pechino, sfarzoso, colorato, che si allunga da nord verso sud, con il suo immenso budda scolpito da un unico tronco di salice bianco. Pechino è la nostra Roma, con il suo caos, con la sua città proibita, con il suo palazzo imperiale d’estate, con il suo tempio del cielo e la fantomatica muraglia. Ne abbiamo scalato solo un frammento, trascinati dalla fiumana di turisti asiatici che la prendono d’assalto, eppure vi si possono respirare momenti di puro contatto con il verde infinito che la circonda. L’esercito di terracotta e sorprendente, proprio come ci si aspetta che sia. Milioni di soldati in piedi ad inutile difesa del proprio imperatore, tutti diversi nel volto, nell’abito, nell’acconciatura. Lascia a bocca aperta pensare che l’esercito sia solo una goccia del patrimonio infinito che circonda la tomba mai scavata dell’imperatore dimenticato. I lavori procedono lenti, e sembra che i cinesi non siano soggetti alla curiosità tutta occidentale. Guilin è Cina contadina e vacanziera. Il traffico diminuisce, la frenesia scompare e si accendono laghi artificiali e lunghi fiumi che attraversano una realtà da sogno fatta di alte e appuntite colline carsiche che non assomigliano a niente di quel che finora avevo visto. Nel cuore è rimasta Suzhou. La guida ci aveva detto che i giardini che ci avrebbero ospitato sarebbero stati ancora più belli di quelli visitati a Pechino e non aveva torto. Piccoli eppure microcosmi perfetti che integrano al proprio interno, acqua, colline, animali e verde con un armonia di modi e tempi che non appartiene all’occidente. Gli scorci tutti pensati per apparire sempre diversi, per stimolare la fantasia e incorniciare paesaggi artificiali mi hanno raccontato qualcosa di più della cultura cinese che è davvero impossibile non rispettare. Che delusione scoprire che quei lembi di terra artificiosi erano preclusi alle donne. Seguendo il grande canale imperiale abbiamo scoperto qualche piccolo villaggio che ricorda da vicino una più povera Venezia, tutta lanterne rosse e negozietti che vendono meraviglie di bambù e terracotta. E a chiudere il cerchio la Milano cinese, l’attraente Shanghai. Alta e sprezzante è tanto triste di giorno quanto luminosa e scintillante di notte, con i suoi grattaceli tutti illuminati e con gli alberi che s’infiammano di lucette rosse, verdi e bianche. E’ un videogioco nel mio ricordo, con una zona storica ricostruita di tutto punto eppure affascinante come una bugia ben raccontata. Impossibile dimenticare la cucina, ricca e saporita, con le sue farine di riso e soia, con le sue bacchette e con la sua carne sminuzzata in bocconcini gustosi e agrodolci. Ma sopra tutto il tee e i rituali che lo circondano, non solo bevanda, ma medicina, tradizione, arte. Non saprei dire se la Cina m’abbia raccontato il suo segreto, certo è che mi ha consentito di sbirciarle dentro, e quel che ho visto m’ha stregata.